“Tutto scorre” diceva Eraclito, come l’acqua col sapone, i titoli di un film. Così inizia Roma di Alfonso Cuarón, proiettato in chiusura alla XXIII edizione del Milano Film Festival, dopo il Leone d’oro alla 75ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia.
Un lungo plongée su un pavimento, l’acqua invade lo schermo, qualcuno lo sta lavando. Un’azione comune, che ci immette direttamente nella storia, presentando la protagonista. Il suo nome è Cleo (Yalitza Aparicio): la domestica mite ed amorevole, intorno a cui ruota la vita di un’intera famiglia della upper-middle class di Città del Messico, nei primi anni Settanta. Il film, che nelle parole del regista è un chiaro omaggio alla domestica che lo ha cresciuto e ai ricordi della propria infanzia, nel quartiere residenziale di Colonia Roma, racconta un momento storico molto preciso. Siamo nel 1971, le contestazioni del ’68 hanno raggiunto Città del Messico, ponendo le basi per l’esplosione di una crisi politica e di un sistema tradizionale di valori, costituito da una rigida suddivisione dei ruoli: l’uomo dedito al lavoro e alla vita pubblica; la donna alla casa e alla cura dei figli. Momento chiave di manifestazione di queste relazioni è la scena del ritorno del padre. Un genitore assente ma percepito come una presenza imponente. Mascolinità e ceto sociale sono rappresentati dalla sua automobile: una muscolosa Ford Galaxy, fuori taglia rispetto al lungo e stretto corridoio che conduce alla casa, la cui pulizia è fonte di ossessione, dove l’auto viene introdotta con una cura maniacale e molteplici manovre. I dettagli si ripetono, accompagnati dal rombo del motore e dalle luci accecanti dei grandi fanali anteriori: le gomme, il paraurti, lo specchietto che sfiora il muro; le mani sul volante, la sigaretta accesa, il posacenere pieno di cicche, la musica classica alla radio. Quest’aura di meraviglia fornita dagli occhi del regista-bambino, però non dura a lungo.
Dopo un breve soggiorno, la partenza per un nuovo viaggio di lavoro in Quebec, viene salutata da un passo falso su una delle cacche del cane, oggetto delle sue ripetute lamentele con la moglie. Situazione che viene sottolineata dall’umoristica cantilena del figlio, inconsapevole del futuro abbandono del padre. Cleo è testimone silenziosa di quanto accade all’interno della famiglia, ma a tirare le fila della narrazione è il suo difficile e sofferto percorso di crescita ed emancipazione. Il rapporto con Fermín (Jorge Antonio Guerrero), è paradigmatico. Viene introdotto da una scena umoristica, che contribuisce a delineare un immaginario maschile, alieno al confronto con la sua controparte femminile. La sua dimostrazione di arti marziali, con il bastone della doccia, completamente nudo suggerisce questa distanza. Ma ci sono altri momenti che palesano l’indisponibilità di Fermín nel riconoscere in Cleo altro rispetto alla soddisfazione del proprio piacere. Si pensi alla scena del cinema. Fermín e Cleo si baciano con passione in una sala gremita di persone, sullo sfondo di un film hollywoodiano sulla Seconda Guerra Mondiale, quando lei decide di rivelargli il suo timore di essere incinta. La tensione non esplode, Cuarón la sublima, attraverso il comportamento ambiguo di Fermín che la rassicura, regalandole, la falsa speranza di un sentimento: “è una cosa bella, no?”, dileguandosi poco dopo con la scusa della toilette.
Una delle scene più emblematiche del rapporto tra questi due personaggi è quella del loro ultimo incontro, durante il Corpus Christi Massacre, del 10 giugno del 1971, che fa riemergere anche la dimensione storico-politica dell’opera. Cleo si trova all’interno di un negozio per bambini, insieme alla nonna di famiglia, per scegliere il lettino per il neonato (in realtà sarà una bambina), quando all’esterno esplodono i disordini, durante una manifestazione studentesca. Nella confusione generale, le si rompono le acque e proprio in quel momento si trova faccia a faccia con la pistola puntata di Fermín. “Non importa quello che ti dicono, saremo sempre sole”. Con questa affermazione Sofia (Marina De Tavira), anticipa la verità di cui Cleo progressivamente diventa consapevole: la sua chiamata all’emancipazione, che culmina in una scena altamente simbolica, quando vincendo la propria paura dell’acqua, salva i due bambini dalle onde del mare. La catarsi è vicina. Un pianto liberatorio dà finalmente sfogo alla sua “colpa” e traumatica esperienza. La storia è un vero e proprio coming-of-age – come dire, diventare grandi e più forti – splendidamente riassunta dalla confessione dell’energica Sofia ai figli: il padre non tornerà, ma comincerà un’altra avventura.
Recensione pubblicata su Artribune.