“Come on baby, light my fire”, con una voce rauca e in maniera estemporanea Keiji Haino, pioniere dell’improvvisazione, chitarrista, figura sfuggente e inquieta del noise elettronico giapponese, ci lascia intonando uno dei pezzi più iconici dei Doors, prima di raggiungere l’aeroporto, dopo la performance alla St. Elisabeth-Kirche della sera prima, insieme a Merzbow Balázs Pándi. Il quarto appuntamento della rassegna curata da Manuela Benetton nelle chiese berlinesi e la preview internazionale del Festival Saturnalia – che si è svolto il 16 e 17 giugno a Macao, a Milano, fra le attività di Tavolo Suono – è stata un’esperienza incredibile, unica, non solo per la formazione sul palco, ma per la dimensione catartica inaugurata da questa estrema esplorazione sonora, alla luce del giorno. All’indomani della performance lo abbiamo intervistato. 

Merzbow, Keiji Haino, Balázs Pandi.

V: Molti autori giapponesi – pittori, poeti, registi, architetti – sottolineano la presenza all’interno del loro lavoro del concetto ispiratore di “Ma”. Per quanto sembri facile da comprendere, perché possiamo rappresentarlo con una pausa di silenzio o uno spazio vuoto, in realtà credo non sia così immediato per chi è nato in Occidente. Rientra anche nella sua musica?

KH: Il concetto di “Ma” è molto presente nella cultura giapponese perché sono gli artisti che si auto-convincono ad utilizzarlo, ritenendo che faccia parte del loro patrimonio. Io penso che si tratti semplicemente di una mancanza di creatività, di una scusa o dell’assenza di un punto di vista più personale.

V: Quindi non rientra nel suo approccio?

KH: Nelle mie perfomance non parto con l’idea di trovare un modo per esprimere il “Ma”. Eventualmente può emergere, ma credo che inteso in questo modo, cioè nella sua forma più esteriore, denoti un atteggiamento orientalista da parte dell’Occidente. Nella pratica non si tratta di utilizzare il concetto di “Ma”, o una sua accezione, in maniera predeterminata. Sono sincero: non mi interessa definire cosa rappresenti, cosa sia o debba essere.

V: Da dove parte e come si sviluppa il suo processo artistico?

KH: Ho un approccio fortemente individualista all’espressività. Il mio processo creativo non può essere etichettato a priori. Jazz, noise, blues sono concetti descrittivi ma non traducono il mio rapporto con la musica. Io voglio portare un nuovo verbo.

V: Apprezzo questo essere fedeli a se stessi, però penso che ogni artista abbia delle influenze. Ho letto che tra le sue ci sono la musica medievale dei troubadours e la butoh dance. È così?

KH: Non credo che “essere influenzato o ispirato” siano le parole giuste per interpretare il mio processo creativo. Si tra più di affinità. Per me “influenza” significa “misurare la distanza tra me e dei riferimenti specifici”, stabilire una relazione. Certamente nei troubadours ho trovato qualcosa che mi era vicino, ma ho sempre ricercato l’unicità come musicista. Della butoh dance non è l’aspetto dark o grottesco ad avermi attratto, perché non mi appartiene. C’è molto di più profondo in quella forma di teatro e danza. Credo che i butoh dancer non si prendano abbastanza la responsabilità di mostrare e spiegare questa profondità al pubblico e ai media, lasciando che la interpretino in maniera superficiale. Ho sempre criticato quegli artisti che vedono solo l’apparenza delle cose, perché diventano facile preda di concetti precostituiti, esattamente come quello di “Ma”. Creano e aderiscono a delle etichette, finendo con l’esserne ingabbiati.

V: Durante la performance ho notato una grande fisicità nel rapporto col suono. È il risultato di precedenti esperienze teatrali?

KH: Non ho un passato legato al teatro. Mi sarebbe piaciuto dedicarmici ma non ho mai trovato la compagnia giusta per me. Nonostante ciò, Antonin Artaud è stato un drammaturgo e un attore che ho sentito molto vicino. Quello che sto cercando di sviluppare è una sorta di “improvisational sound theatre”, che mi metta nella posizione dello “storyteller”. Non vorrei però che questa parola venisse fraintesa, non ho intenzione di raccontare storie attraverso le parole, bensì di lavorare sulla dimensione narrativa del suono. Mi considero come uno stregone, un profeta, un oracolo, un danzatore, che sul palco mette in atto dei rituali. L’obiettivo è comunicare, attraverso diversi canali: la voce, la chitarra, il corpo, gli strumenti elettronici. La performance è una forma di comunicazione che nasce dal processare degli stimoli che provengono dall’interno, dall’esterno e da lontano. È il raggiungimento di quello che definisco “the deepest point of now”.

V: Questo discorso del passare da un tempo all’altro, riguarda anche il modo di relazionarsi con gli altri musicisti? Quando ho assistito alla performance dei Marginal Consort e successivamente li ho intervistati, mi hanno spiegato che sono abituati a interagire tra loro mediante assoli. Non si comportavano come una band, ma come singoli, senza prestare attenzione a cosa facevano l’un l’altro.

KH: La nostra direzione è totalmente differente, noi abbiamo suonato come una band. Quindi prestando attenzione l’un l’altro. Non amo il caso, lo trovo un po’ “vecchia scuola”.

V: Che tipo di interscambio è avvenuto?

KH: Sul palco cerchiamo sempre di realizzare qualcosa di grandioso. Ciascuno si ritaglia il proprio spazio, ma non significa agire in maniera egoistica o dittatoriale, l’attenzione è sempre rivolta a cosa stanno facendo gli altri. Ognuno procede in libertà ma bisogna riconoscere il momento giusto per introdurre un elemento di novità o per lasciare spazio agli assoli di ogni componente. Ci deve essere molto dinamismo, perché l’obiettivo è ottenere l’attenzione del pubblico, farlo partecipare anche fisicamente alla performance.

V: Prima si parlava del fatto che dall’esterno certe manifestazioni emotive durante un live vengono percepite come violente.

KH: Non credo che nella mia musica ci sia violenza. Il corpo dell’improvvisazione è come un contenitore che viene riempito da un potere e da un’energia debordanti. La manifestazione esteriore di ciò che accade spesso viene etichettata come violenza, ma si tratta di una proiezione, perché chi assiste è estraneo alla rapidità con cui io raggiungo questo stato profondo del presente e dell’Essere.

 

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