Nascondersi nell’ombra, per immortalare la luce. Una camera di grande formato e un film che non lascia ricordo, se non l’intensità dello schermo su cui è proiettato. Le storie in Hiroshi Sugimoto (1948) si trasformano in concetto, in percezione filosofica del tempo.

Hiroshi Sugimoto, Teatro Comunale di Ferrara, 2015 (screen side).

Due ore di immagini in movimento condensate in un bagliore. Una ribellione nei confronti del narrare, che restituisce tutta la forza iconografica della fotografia. A partire dagli Anni Settanta, il maestro giapponese inizia a esercitare la sua grande abilità tecnica, ricercando nelle esposizioni estese, quell’immobilismo che diventerà la cifra distintiva della sua arte. Minimalista e concettuale, ossessivo nella serialità, unico nella capacità di fissare (e idealmente lasciare scorrere) la transitorietà della vita, Sugimoto è un autore che ritrova nell’occhio la poesia del mistero. Le sue composizioni, rigorosamente monocromatiche, traspongono la realtà su un piano irreale. Che si tratti della Natura, nei Seascapes quanto nei Dioramas (dove mette in scena un delicato gioco di verità-finzione ritraendo animai impagliati all‘American Museum of Natural History) o della Cultura, nei suoi Theatres, il risultato è sempre un’illusione, un’immagine più reale del reale. Saranno proprio questi ultimi ad essere ripresi e riproposti nella mostra, Le Notti Bianche, alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, curata da Filippo Maggia e Irene Calderoni, per tornare a investigare la capacità della fotografia di interpretare e distillare la storia, esprimendo nel contempo l’infinito e il “non misurabile”. La nuova serie presentata a Torino, realizzata esclusivamente in teatri italiani negli ultimi tre anni, ripropone lo stesso impianto meta-fotografico del lavoro precedente, con alcune differenze sostanziali.

Hiroshi Sugimoto, Villa Mazzacorrati, 2015 (screen side).

Non si tratta più di cinema-teatri, bensì di spazi esclusivamente teatrali dove vengono installati degli schermi, introducendo un elemento “architettonico” che ne trasforma l’aspetto scenografico. Ogni fotografia inoltre è accompagnata, nell’allestimento, dal suo opposto – da un lato, quel rettangolo brillante che rimanda all’epifania primigenia dei Lumière quanto ad un portale proteso verso un’altra dimensione, dall’altro il buio della platea e delle gallerie – ricreando quel percorso metafisico, dall’ombra alla luce e dalla luce all’ombra, che ricorda il nostro ingresso e congedo dalla vita.

 

Articolo pubblicato su Espoarte.

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