Guy Alexander Brewer, conosciuto con gli alias di Shifted e Covered In Sand, è uno dei musicisti della scena techno internazionale più versatili. Descrive la sua techno con un approccio da purista, allontanandola dall’immaginario britannico, pur avendo un aspetto marcatamente irregolare.
In questa intervista abbiamo parlato del suo ultimo album,
Appropriation Stories, uscito su Hospital Productions, la storica label dell’East Village di Manhattan, di Ian Dominick Fernow (aka Prurient,
Vatican Shadow), dove ha sottolineato il suo bisogno di oltrepassare una certa interpretazione del dancefloor.
V: Appropriation Stories è il tuo terzo album e instaura un dialogo col tuo passato legato alla scena Drum’n’Bass. Perchè hai scelto di rivolgere lo sguardo indietro e in che modo lo hai fatto in relazione alla tua attuale identità musicale?
S: Appropiation Stories non è un disco drum’n’bass, influenzato o che suona come la drum’n’bass. Direi piuttosto che mi sono ritrovato ad ascoltare buona parte del materiale che negli anni avevo registrato e archiviato, e ho deciso di utilizzarlo in maniera nuova all’interno di un album che è profondamente techno. Compongo musica da quando avevo diciassette-diciotto anni e la drum’n’bass era la scena che frequentavo a quei tempi, però con il termine appropriation non intendo dire che attraverso questo album mi sono riappropriato di me stesso, ma semplicemente che ho riaperto i floppy disk del mio passato alla ricerca di suoni che avevo collezionato.
V: Che tipo di emozioni volevi comunicare o quale atmosfera volevi evocare?
S: La mia musica non è melodica, si compone di textures e quindi ha una connotazione più atmosferica che emozionale. Mi sono sempre piaciuti i suoni futuristici ed è il motivo per cui mi sono avvicinato alla techno e alla drum’n’bass, tanto quanto all’ambient e al noise. Sono nato negli Anni Ottanta e conservo buona parte di quell’immaginario, tra cui le suggestioni provenienti dalle colonne sonore dei film di fantascienza. Probabilmente non sono il solo, perchè oggi, gran parte della musica che viene prodotta utilizza suoni futuristici, che sembrano catapultarci venti, trent’anni indietro.
V: Film, videogame, fumetti e più in generale la cultura pop degli Anni Ottanta e Novanta, sono un riferimento?
S: È impossibile non essere stati influenzati dalla cultura pop di quel periodo. I media e gli immaginari degli Anni Ottanta sono diventati parte integrante del mio bagaglio culturale, sia da un punto di vista creativo che estetico. I videogame, come Metal Gear 2: Solid Snake, i romanzi, i fumetti, i film, hanno avuto un grande impatto su di me da un punto di vista artistico.
V: Analogico e digitale. Vedi una relazione tra loro?
S: Non sono mai stato una persona “analogica”. Lavoro con computer e drum machine, la musica che compongo sarebbe impossibile, anche solo da pensare, senza un certo tipo di tecnologie. Alla musica ci si può avvicinare in maniera più tradizionale, ma credo che sia impossibile ignorare il grande impatto del digitale. Naturalmente penso che una commistione di entrambi sia molto interessante. Per produrre utilizzo sia l’analogico che il digitale, il computer processing tanto quanto i synth modulari.
V: Berlino e Londra propongono due differenti modi di guardare e interpretare la techno. Hanno avuto un impatto sulla tua musica?
S: Vivo a Berlino da alcuni anni, però credo di essere in una fase artistica e produttiva più matura, che mi porta ad essere meno influenzato dal contesto in cui mi muovo. In passato non era così, la scena drum’n’bass di dieci anni fa, che faceva capo a Londra, per me è stata un riferimento molto forte. Quando ero più giovane ricercavo un coinvolgimento con le persone che portavano avanti le mie stesse idee o si riconoscevano nelle sonorità che mi piacevano. Però la techno inglese non è mai stata un riferimento per la mia musica. La mia è techno pura.
https://www.youtube.com/watch?v=-IUTGg2OmVc&index=10&list=PL1ntfXx-b2MxplkvS0o2xvsPhZN_fQL2V
V: Da quale traccia è partito l’album?
S: The Faintest Trace, The Quietest Wishper, che è l’ultima. Lì ho iniziato ad utilizzare e ridare senso ad alcune sonorità drum’n’bass, che per me erano importanti da un punto di vista emozionale, e che poi sono diventate strutturali nell’album. Quando ho cominciato a lavorarci, non sapevo esattamente cosa stessi cercando. Solo quando l’ho finita, ho capito che poteva costituire l’incipit di un nuovo disco.
V: Hai un approccio concettuale alla musica oppure produrre per te è il risultato di uno stream of consciousness?
S: Dipende dagli album, alcuni sono più ispirati e richiedono più tempo altri vengono fuori di getto come Under A Single Banner, dove ho lavorato solo sui primi take di registrazione. Nel processo creativo però l’immediatezza per me è importante. Non amo lavorare troppo sulle tracce, non sono convinto che migliorino per forza. Probabilmente la mia attitudine è più vicina allo stream of consciousness che alla concettualizzazione. I concept degli album non preesistono alla musica, vengono sempre aggiunti dopo.
V: Vorrei approfondire alcune tracce: This passage, Flatlands, Watchers.
S: This passage è un buon esempio di commistione tra analogico e digitale. È quella più lenta dell’album e ho scelto di utilizzarla come prima perchè volevo un’introduzione più slow e ambient. Flatlands è la mia traccia preferita, perchè ho passato molto tempo a lavorare sugli elementi di dettaglio, suoni e microscopiche variazioni disseminate
lungo l’arco di sette minuti. Watchers è una delle tracce più veloci, sia da un punto di vista produttivo che come ritmo. È molto semplice, perchè è costituita da soli tre elementi e una drum machine. Non ha troppi effetti, è immediata ed è arrivata in maniera molto naturale.
V: Come consideri il tempo e lo spazio?
S: Facendo musica techno, sicuramente sono molto importanti. La techno ha una struttura molto rigida che può essere arricchita o risematizzata in maniera più personale, cercando di oltrepassare il dancefloor e la dj culture. Questo è il mio obiettivo costante.
V: La musica entra in relazione con la sfera visiva?
S: Come dicevo prima, credo sia impossibile non essere influenzati da ciò che ci circonda. Essere un artista significa cercare di guardare il mondo in un modo diverso, anche attraverso altre forme d’arte. L’arte visiva ha sempre avuto una grande ricaduta in quello che faccio, ma da un punto di vista intangibile. Come del resto le relazioni, l’amicizia, altri tipi di musica. In fondo la mia arte è un’estensione della mia personalità.