Conflitto, distanza o evoluzione? Ognuno al proprio posto con un ruolo e qualcuno che porta il disordine, sfondando le barriere del panel perfetto. Di chi stiamo parlando? Sul palco del Teatro della Triennale di Milano, il primo giorno, di questa seconda, o come preferiscono sottolineare i due direttori artistici, Marina Pierri e Giorgio Viaro, ufficialmente prima edizione di FeSt: il Festival delle Serie Tv, si parla di stereotipi. Come oltrepassarli, anzi romperli. Breaking Stereotypes è il filo conduttore di un programma variegato che si sviluppa nell’arco di tre giorni, tra anteprime, dibattiti, masterclass e incontri della sezione industry. Ci pensa Costantino della Gherardesca, mentre cerca di prendere più volte la parola, per ribadire un concetto importante. Ciò che stiamo vivendo oggi, in particolare il mondo nuovo che racconta Euphoria, la serie televisiva targata HBO, che vede Drake in produzione, in onda su Sky Atlantic dal 26 settembre (la cui prima puntata è presentata in anteprima al Festival), quello della generazione Z, dei nati dopo l’11 settembre 2001, è l’eredità delle utopie della generazione X, il prodotto di intellettuali alto-borghesi che hanno sognato un mondo diverso.
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Oggi si parla di inclusione e sostenibilità. Ossia della possibilità di applicare queste visioni alternative, e per certi versi sofisticate, all’intera società. È fattibile? È auspicabile? La posizione di Costantino della Gherardesca fa luce sulla difficoltà di rendere popolare un modo di pensare estremamente elitario. All’opposto Francesca Vecchioni, fondatrice e presidente di Diversity, associazione no profit il cui tratto distintivo è l’analisi della rappresentazione nei media, con voce ferma sostiene la necessità di intervenire sulla narrazione seriale, più in generale popolare, allo scopo di trasformare la società. La youtuber, blogger, Muriel fa un esempio concreto, richiamandosi al personaggio di Kat (Katherine Hernandez) proprio in Euphoria. “Se io avessi visto questa serie quand’ero adolescente, mi sarei sentita più accettata. Perché nei media le persone in sovrappeso vengono sempre rappresentate come marginali, diverse, nel senso di rifiutate, e bullizzate. Mentre Kat è una “figa”, piace”. Del resto la serie creata da Sam Levinson, in parte tratta dalla sua esperienza personale, osannata dalla critica americana, è un dramma per teenager e adulti, che parla di sesso, droga, amore, amicizia, ma soprattutto di crisi dei generi e delle rappresentazioni.
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Rue Bennet (Zendaya) è la protagonista, la sua discesa nel mondo della droga non è una via d’uscita, bensì il tentativo di ritagliarsi uno spazio intimo in cui cercare se stessa, rispetto ad un fuori, prima di tutto familiare, che sembra non accorgersi della sua presenza, della sua diversità, facilmente etichettata come malattia mentale. Questo argomento solleva Paola Maugeri, che si interroga non tanto e non solo su come capire e parlare ai figli, ma su come essere genitori. Ci vuole un percorso di formazione, o di autocoscienza, per imparare a confrontarsi con ciò che non si conosce. Chi esce dai nostri schemi? Jules, l’adolescente transgender? Il marito, il padre che ci vive accanto e che la cerca in chat e la incontra in una camera d’albergo in segreto? Il ragazzo con cui facciamo sesso, anzi il sesso tutto ai tempi di Pornhub, che diventa apprendimento rapido, imitazione, liberazione, violenza, amore e anche cinismo? Revenge porn? Perché odiamo? Il passaggio a Why We Hate è d’obbligo. Sono solo quindici minuti, quelli proiettati, dell’ambiziosa docu-serie co-prodotta da Steven Spielberg e Alex Gibney (vincitore del Premio Oscar nel 2008 con Taxi to the Dark Side), in onda a partire dal 14 ottobre su Dplay Plus, la nuova piattaforma a pagamento di Discovery. Neuroscienze, genetica, media, frustrazione. I corpi si scontrano negli stadi, il sangue scorre nelle strade.
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È natura? È cultura? È sicuramente un meccanismo di difesa ancestrale, una risposta alla paura, un retaggio del nostro essere animali di fronte a una situazione di pericolo. Una perdita di quel “sociali”, che ha sempre definito, o cercato di distinguere, gli essere umani. Eppure l’odio è un sentimento imponente, comune, oscuro. Più frequente dell’amore. Un ritorno al tribalismo che la società globale ha assecondato. O meglio, l’altra faccia della medaglia di essere connessi, di potere viaggiare con facilità (non per tutti) da una parte all’altra del pianeta, di poter guardare da una finestra mondi lontani, che diventano “inspiegabilmente” vicini nelle nostre città, quando siamo chiamati a riflettere su cosa sia l’identità. Lo ricorda Daisy Osakue, promessa dell’atletica italiana, vittima di un’aggressione razzista (o interpretata come tale) a Moncalieri (Torino), che ha fatto il giro del web infiammando animi, alzando muri e generando fazioni, che nel panel correlato spiega la difficoltà di resistere a quella gogna mediatica e allo stesso tempo l’interesse nell’analizzarne le dinamiche. Questi sono solo due esempi virtuosi di un Festival che dimostra di procedere a vele spiegate in una direzione molto chiara.
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In questo momento storico la serialità è la scommessa che dobbiamo affrontare. Non solo perché obbliga il nostro paese ad incorporare delle logiche produttive di sistema, quindi più industriali, che vengono dal confronto diretto con i broadcaster e le piattaforme di streaming internazionali (Netflix con la sua presenza in 190 paesi è un dato ineludibile e un partner imprescindibile), che il cinema aveva dimenticato o mai realmente costruito, ma anche perché è il territorio immaginario in cui si possono affrontare il maggior numero di tematiche che riguardano la contemporaneità, con un livello di approfondimento pari a quello della letteratura, che riporta al centro la scrittura. La sua originalità, sostenibilità e autorialità, come dimostrano gli incontri della parte industry. I panel come Verso una serialità senza confini, che vedono Netflix, RAI, Sky, Cattleya e Fox a confronto; o Come presentare la propria serie tv, dove si affronta il percorso per diventare uno sceneggiatore; o Dalla carta allo schermo: l’adattamento televisivo dell’opera letteraria, o Serie di carta con la partecipazione di Bookcity Milano. In linea generale, ogni intervento approfondisce un argomento, grazie alla presenza di un partner, ben segnalato nel programma. Un metodo efficace per brandizzare ogni contenuto, renderlo facilmente ricordabile e incrementare, in una prospettiva futura, la rete di relazioni. Da un punto di vista curatoriale: una formula, se non completamente innovativa sul piano concettuale, sicuramente innovativa nella sua chiarezza comunicativa e programmaticità inclusiva.
FeSt – festival delle serie tv
Report pubblicato su Artribune.