Siamo in viaggio. Lo sono la società, il costume, l’economia. È la network society ad averci cambiato, trasformando le nostre abitudini. Rendendo il nostro corpo oggetto d’invenzione. La nostra identità deterritorializzata e fatta di pluriappartenenze. Questo terremoto ha coinvolto tutti. Anche l’altra cultura, quella black. Superati gli Anni Sessanta e la rivendicazione etno-razziale dell’affirmative action, gli Anni Settanta della double consciousness e gli Ottanta (ma mai completamente) dell’hip hop e della cultura nera di strada, musicale, del ghetto, che ne è del Black Power? Se guardiamo alla storia da una prospettiva globale la risposta arriva diretta. L’idea di diaspora dei popoli sostituisce quella di confine, inneggiando al rinnovamento continuo. Mettendo fine a una triade che fin troppo a lungo ha tenuto insieme etica, estetica ed etnicità. Lo dimostra il lavoro di Damier Johnson: nigeriano, torinese, italiano; fashion designer di nuova scuola, con la sua sensibilità “ribelle” e tutta bricoleur.
V: Partiamo dalle tue origini e dal perchè hai scelto di esprimere te stesso attraverso la moda.
DJ: Vengo dall’Africa, dalla parte Ovest, la Nigeria. Vivo in Italia da più di dieci anni, da quando ho deciso di raggiungere mia madre e mia sorella, che si erano trasferite qui per lavoro. Per me la moda, lo stile, sono sempre stati una necessità, prima di integrazione e poi di espressione. I miei capi sono il risultato di una sensibilità molto personale. Quasi una diretta emanazione della mia identità, che continua a essere africana, ma che è stata contaminata dal modo di vivere e apparire occidentale. Nella quotidianità non indosso gli abiti tradizionali (non ne ho mai indossato uno!), ma ne ho raccolto l’eredità estetica. Le mie collezioni nascono dal desiderio di provocare un forte impatto su tutti coloro che scelgono di sottolineare la propria differenza. Amo combinare lo stile europeo con il mio passato, creando spesso dei “conflitti” estetici e di significato.
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V: Parli di stile europeo, ma è una definizione piuttosto ampia. Quali sono le tue ispirazioni?
DJ: Sono onnivoro di immagini e immaginari. Quindi l’incontro con l’Italia e l’Europa non ha prodotto in me una fascinazione univoca. Il gusto per il colore potrei farlo risalire sia alla mia cultura sia alla sensibilità pop degli Anni Ottanta, in costante revival, ma che per me rappresenta qualcosa di molto preciso: la gioventù di mia madre. Il suo modo di vestire, ispirato agli stili della strada. Sì ecco, direi che la strada è una grande fonte di ispirazione, come le culture giovanili, lo skate. Il cambiamento che voglio attuare parte dal bisogno di rivitalizzare la strada e il suo spirito ribelle.
V: Passiamo alla tua prima sfilata. Una cornice spettacolare, una Chiesa, un Museo d’Arte. Platea piena, applausi senza fine. Ribelle tu e la Boutique Antagonista che ti ha ospitato. Da dove viene questa ribellione?
DJ: Sicuramente dal marchio che rappresento, Rebel Yuths. Un marchio che non vuole negare l’esistente ma trovare una via alternativa per esprimerlo, rappresentando la gioventù di oggi. Quella parte che crede nell’essere se stessa, nel vestire come vuole. Fuori dalle righe e dai dettami della moda ufficiale.
V: Le tue collezioni sono ricche di maschere. Al di là dei trend delle passerelle internazionali, c’è una ragione specifica, antropologica o culturale?
DJ: In molti me lo chiedono e certamente le mie origini mi hanno influenzato. Ma c’è dell’altro. Uso le maschere perchè voglio nascondere l’identità dei modelli. Voglio che siano solo i miei capi a parlare, a far viaggiare chi li guarda. Ciò che conta è l’immaginazione. Mi piace che le persone si domandino: “Chi c’è dietro la maschera?”
V: Cosa pensi della moda con la “M” maiscuola? Vorresti farne parte o preferisci la “fuga” nell’arte?
DJ: La moda. Il mondo che rappresenta è così smisurato, seduttivo, lontano per me. È governata da velocità e frenesia. Obbliga i fashion designer a produrre incessantemente, per continuare ad essere dei trendsetter. Io la penso diversamente. Per me contano le persone. Gli stessi vestiti non possono essere indossati da tutti. Lo stile è una questione di personalità. È riconducibile alla storia e al sentire individuali. C’è una frase in particolare che ripeto sempre a me stesso e agli altri: “Wear what you feel confortable in, try to be at the same time and try to keep it real”.
Intervista pubblicata su Rent, issue 08, anno 2012.