Emmanuel Carrère torna al cinema con Ouistreham (Between Two Worlds), aprendo la Quinzaine des Réalisateurs, un film tratto dal libro-inchiesta di Florence Aubenas, Le quai de Ouistreham (in Italia La scatola rossa), e un tema di grande attualità, la gig economy, di cui i portabandiera più insigni sono stati Ken Loach, si ricordino Sorry We Missed You, alla 72esima edizione del Festival di Cannes, tanto quanto Bread and Roses (2000), e di recente Chloé Zhao con Nomadland. Un cast quasi interamente composto da donne, lavoratrici impiegate nelle imprese di pulizie, affianca la star Juliette Binoche per raccontare non semplicemente una storia di sfruttamento selvaggio bensì del delicato rapporto che si crea all’interno di queste comunità temporanee di invisibili e della legittimità di poterle documentare con uno sguardo dall’interno. È dunque un tradimento quello di Marianne Winckler (Juliette Binoche), che ricalca quello della Aubenas, infiltratasi per mesi tra le donne delle pulizie del traghetto che attraversa la Manica, che, spacciandosi per una donna benestante abbandonata dal marito, intraprende il faticoso percorso del precariato senza nessuna qualifica, tra agenzie di collocamento per disoccupati e opportunità di lavoro a salari minimi?

 

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Carrère, più scrittore che regista, sembra particolarmente interessato a questo aspetto, che in ambito etno-antropologico è stato a lungo dibattuto. In che modo lo “straniero” deve entrare all’interno di un gruppo? Lo scrittore però diversamente dall’antropologo ha dalla sua la capacità e la possibilità di mentire (Marianne dirà: “Certe volte mento, ma poi lo dico”). Del resto autobiografia e immaginazione sono due ingredienti essenziali della letteratura, ma potremmo dire, della scrittura in senso lato. Le esperienze della vita reale rappresentano sempre una grande occasione di riflessione sulle relazioni o sull’universalità di sentimenti e dinamiche che coinvolgono le persone. Per cui è legittimo parlare di menzogna o, come ringhia Christèle (il personaggio più carismatico e la vera scoperta attoriale del film) a Marianne, di “tradimento”, quando scopre la verità sul suo conto, il mondo diverso a cui appartiene e a cui tornerà una volta finita la “ricerca sul campo”, oppure dovremmo considerare l’autenticità delle emozioni che si provano e dei legami che si stringono durante queste “bolle temporali”, che ci consentono, proprio come in una viaggio, di conoscere la realtà per frammenti, a partire dall’intensità dell’esperienza circoscritta rispetto all’estensione della quotidianità?

Between Two Worlds, still dal film.

La risposta spetta al pubblico anche se sulle prime è difficile non identificarsi con Christèle, con la sua rabbia, con la sua solitudine, con l’asprezza della sua vita e il rischio costante di perdere ogni tutela sociale per se stessa e i suoi figli. Difficile anche non identificarsi con quella comunità di donne, pagate solo sette euro l’ora, per sistemare in pochi minuti le camere del traghetto che i passeggeri incuranti lasciano in condizioni inaffrontabili, senza pensare a loro o forse per dispetto, che hanno nonostante tutto voglia di ridere, cantare e ballare. Difficile non identificarsi con la giovanissima Marilou, che fissa con sguardo severo dalla strada attraverso la vetrata la Marianne borghese, durante la presentazione del suo libro. Impossibile non sentirsi tradite da una donna che si è fatta entrare in casa propria e che ha sbattuto la verità nero su bianco senza chiedere il permesso. Qual è il sentimento giusto da provare: la gratitudine o l’offesa? Quale il confine tra l’inchiesta e lo sfruttamento delle vite degli altri?