L’avvento delle nuove tecnologie ha inciso profondamente sulla cultura, determinando nuove modalità di comunicarla e pensarla. La cultura, ha risentito dell’influenza tecnologica dall’interno, al punto che ci siamo abituati a considerarla sotto il profilo sistemico, operando su significati e codificazioni. Di questo nuovo habitus è responsabile l’accento posto sulla comunicazione, intesa come modalità operativa specifica di trattamento dell’informazione. Il primo luogo della comunicazione è il corpo, la cui natura è sempre meno pensata come qualcosa di naturale, data la sua artisticità o artificialità intrinseca. Parlare di artificialità non significa ancora parlare di tecnologia; artificiale e artificiosa è anche la natura stessa, con i suoi innumerevoli tentativi compiuti in vista di progressivi cambiamenti eco-sistemici. La tecnologia, è un prodotto del saper fare umano, guidato e forse finalizzato all’artisticità: ossia al modo di produrre e intervenire sulla cultura. Alla luce di ciò, richiamando le riflessioni sulla moda varrebbe la pena di mettere in discussione la distinzione che oppone abbigliamento e moda, a partire da una prospettiva funzionalista.
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Questa scissione cade nel momento in cui si considera la moda come arte di essere nel corpo: ossia di abitarlo. Spostare l’accento sull’artisticità e sul sentire significa che non ha più senso distinguere tra bisogni e costruzioni culturali, perché il corpo inserito in un ambiente a sua volta artificiale, vi si adatta. Specificare questo ci permette di comprendere anche lo statuto della comunicazione, non più interpretabile come una prerogativa umana ma del mondo stesso, con tutti i suoi esseri viventi, che vivono e interagiscono grazie all’energia. Da posizioni analoghe parte la riflessione dell’artista biotech Eduardo Kac, di cui è importante prima di tutto citare la professione di fede contenuta nella sua Antologia del 1982, che riguarda il tema del corpo. “Io per mia parte, in questo testamento cercherò di concretizzare: ben al di là della pornografia e dell’erotismo, sorge trionfante il corpo. Non il corpo massacrato della popolazione terraquea. Non il corpo scolpito dei miti. Non soltanto il corpo fisico del poeta. Un altro corpo. Nella linea di Sade e Duchamp: una body poetry, un energy writing, o qualsiasi altro nome gli si voglia attribuire”.
Il corpo vede, sente, immagina, pensa, scrive, opera e la sua body poetry non è quella del soggetto, dell’artista, che ne dà una visione specifica, ma è quella che riguarda la sua spinta verso una perenne trasformazione. Per questo motivo è utile, tenendo il corpo al centro, mettere a sistema moda, comunicazione, scienza, arte e tecnologia, per svelare e suggerire scenari di possibili ibridazioni di saperi, immaginari e pratiche con lo scopo riflettere in maniera più approfondita sul mondo contemporaneo. Il fronte delle biotecnologie, che divide da tempo scienziati e opinione pubblica, sollevando molteplici interrogativi di natura etico-morale, sociale ed estetico-culturale, è un punto di partenza scottante ma di avanguardia per queste riflessioni. Va rilevato che il complesso groviglio di sentimenti, paure, credo e posizioni intorno alla genetica va fatto risalire a una visione dicotomica del mondo, della natura in antitesi alla cultura, che oppone i saperi piuttosto che esplorarne le connessioni. Le quali sono il prodotto di uno specifico modo di abitare la società, a sua volta plasmata da ricerca, tecnica, tecnologia e informazione.
Come osserva Eduardo Kac: “le (nuove) tecnologie mutano la nostra percezione culturale del corpo umano, da sistema naturale autoregolato a oggetto controllato artificialmente e trasformato elettronicamente (…). Gli sviluppi paralleli di tecnologie mediche quali la chirurgia plastica e le neuroprotesi ci hanno consentito di estendere questa plasticità immateriale ai corpi reali. (…)” (Eduardo Kac, www.ekac.org), permettendoci anche di riflettere sincreticamente sulla comunicazione: dalla telematica, ai geni, alla cultura, alle specie, verso un nuovo corpo individuale e sociale. Proprio a partire dalle riflessioni sulla comunicazione, intesa come processo che porta distinte entità, reali, virtuali, ibridi transgenici, a contatto, permettendo scambio e trasformazione, è interessante esplorare il lavoro di Kac e il suo obiettivo di creare esseri viventi unici con i quali dialogare, ponendosi il problema del senso di questo processo creativo, del ruolo giocato dalla scienza e delle posizioni critiche in merito, e dello sviluppo di nuovi modi di comunicare.
Prescindendo dal prendere in considerazione le prime opere che possono essere lette nell’ordine della Telecommunication & Telepresence Art, il lavoro che ci mette realmente di fronte all’ipotesi generativa di cloni, chimere e creature transgeniche è Genesis, presentato nel 1999 ad Ars Electronica. Genesis è al limite tra biologia, etica, dialogica e telematica, e consiste nel produrre un gene sintetico, chiamato provocatoriamente gene d’artista, per dimostrare l’intreccio tra naturalità, artificialità e implicazioni socio-culturali. Per creare il gene Kac si serve di un passo biblico, tradotto in inglese, tratto dalla Genesi (da cui il nome dell’opera), “Let man have dominion over the fish of the sea, and over the fowl of the air, and over every living things that moves upon the earth”, di cui chiare sono le implicazioni ideologiche circa la questione della supremazia umana sulla natura. Fa tradurre questa frase dal linguaggio umano a quello “genetico”, passando prima attraverso il codice Morse. Se questa prima traduzione risulta piuttosto semplice, la seconda da Morse a DNA è assai più impegnativa.
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Il DNA, infatti, è una lunga molecola con struttura a doppia elica costituita da quattro componenti essenziali, le cosiddette basi azotate, che vanno sotto il nome di adenina (A), guanina (G), timina (T) e citosina (C). Ognuna delle due eliche del DNA è costituita da una combinazione di A, T, G, C. Eduardo Kac utilizza le lettere delle basi azotate per la sua traduzione. Una volta compiuta la traduzione da Morse a DNA, il gene sintetico è pronto. Creato il gene, l’obiettivo è quello di clonarlo all’interno di plasmidi, contenenti il gene d’artista, in batteri E.coli. La particolarità di questi batteri sta nel fatto che i loro geni sono provvisti di una proteina naturale, la GFP, che li rende verdi fluorescente se esposti alla luce ultravioletta. A questi batteri, contenenti il gene sintetico, viene in seguito alterata la colorazione da verde a blu (ECFP: Enhanced Cyan Fluorescent Protein), mentre in giallo (EYFP: Enhanced Yellow Fluorescent Protein) viene alterata la colorazione di altri batteri E.coli privi del gene sintetico e messi insieme ai precedenti.
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A contatto gli uni con gli altri interagiscono dando vita a tre possibili mutazioni, visibili attraverso i raggi UV: 1- I batteri blu (ECFP) donano i loro plasmidi a quelli gialli (EYFP) e viceversa. Da questo scambio scaturiscono nuovi batteri di colorazione verde (EGFP); 2- Non avviene nessuna donazione e quindi ogni batterio mantiene la sua colorazione originaria; 3- I batteri che perdono completamente i plasmidi diventano pallidi, color ocra. Mutazioni che dipendono da diversi fattori, tra cui: il naturale processo di moltiplicazione dei batteri, l’interazione dialogica tra essi e l’attivazione dei raggi UV da parte dell’uomo che ne accelera il processo. Obiettivo della fase finale dell’opera stessa. Durante l’esposizione in galleria i batteri, contenuti in un vetrino da microscopio, vengono collocati su di un piedistallo al centro della sala e ripresi costantemente da una piccola videocamera. Tutto ciò è collegato a due computer: uno trasmette in tempo reale il video e l’audio e permette agli utenti online di attivare i raggi UV a distanza. L’altro sintetizza la musica del gene d’artista attraverso un mixer creato appositamente e designato alla lettura delle sequenze di DNA. Il momento topico del progetto è ovviamente l’interazione dei visitatori e degli utenti online con il lavoro.
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I visitatori, liberi di relazionarsi all’opera nel modo che ritengono più opportuno, una volta raggiunto il piedistallo si trovavano di fronte ad una scelta: da un lato, accendere la luce ultravioletta per vedere all’interno del vetrino e conseguentemente aumentare la velocità di mutazione dei batteri, dall’altro, non intervenire per evitare di alterare il corso naturale dei processi. Una volta esposti ai raggi UV i batteri mutano più velocemente, non solo nell’aspetto (cambiamento della colorazione), ma anche nella conformazione genetica. L’azione dei partecipanti, immediata quanto un click, il gesto più comune della comunicazione online, modificando la combinazione di basi azotate nei batteri, ovvero la traduzione genetica del passo biblico, ha conseguenze sul contenuto della frase della Genesi. Da cui l’importanza simbolica dell’interazione (to clik or not to click): accendere la luce significa non accettare il senso della frase, tradizionalmente tramandato, e non poter governare il suo cambiamento di significato. Gli esiti del processo sono indeterminati. In questa prospettiva l’uomo, che nel corso della sua esistenza è sempre riuscito ad avere il dominio sulle altre forme viventi, si ritrova, nel Ventesimo secolo, contemporaneamente nella posizione di soggetto e oggetto del proprio dominio.
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Un dominio culturale, un dominio naturale, un dominio tecnico-scientifico. Così scopriamo che il lavoro di Kac è importante proprio perché crea una convergenza tra due discipline contrastanti tra loro – religione e scienza – mettendole in discussione entrambe e con esse l’impostazione del pensiero occidentale: da un lato rendendo evidente il mutamento semantico che corrisponde ad ogni traduzione, e obbligando a riflettere sull’attendibilità di un libro che, seppure considerato di origine divina, è stato tradotto, interpretato e ricopiato innumerevoli volte nel corso dei secoli; dall’altro criticando l’odierna e riduttiva convinzione che vede nel DNA il codice attraverso cui conoscere i segreti della vita. Con la paradossalità del suo gene d’artista, reale e simbolico nello stesso tempo, Eduardo Kac ci comunica che il significato principale dell’ingegneria genetica non è la creazione della vita, ma la nascita di una nuova soggettività relazionale, e con essa di una nuova cultura materiale e simbolica. Processo che mira alla presa di coscienza e alla responsabilità del pubblico circa le proprie azioni.
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La portata dirompente di Genesis non si esaurisce qui. Il progetto è importante anche per il suo esplicito riferimento all’artificialità. Tutti gli elementi utilizzati sono ben lungi dall’essere naturali: gli stessi elementi biologici, i batteri, sono comunque mediati dalla tecnologia, sottolineando come tutto ciò che viene definito naturale, compresa ogni forma di espressione, sia frutto di una costruzione sociale, che gioca un ruolo imprescindibile nella comprensione della realtà, della storia e dell’alterità. Il progetto Genesis rende evidente che la vita, e con essa la diversità, non può più essere considerata un fatto puramente biochimico, ma costituisce un fenomeno complesso, all’incrocio tra credenze, economia, diritto, decisioni politiche, leggi scientifiche e costrutti culturali ineliminabili, che in qualche modo vanno sondati e posti in crisi per contribuire al passaggio verso una cultura post-biologica. Questione spinosa e che secondo l’artista non può essere risolta in ambito scientifico o senza un coinvolgimento, un’apertura cognitiva e un’educazione dell’opinione pubblica, troppo spesso pilotata da un’informazione poco chiara e manipolata.
Eduardo Kac è consapevole di questa situazione ed è convinto che, per affrontare una questione così delicata, sia necessaria una collaborazione da parte di diverse discipline per poterla valutare da molteplici punti di vista. Afferma infatti: “è chiaro che la manipolazione genetica diventerà una parte integrante della nostra esistenza nel futuro. Gli esseri transgenici popoleranno il paesaggio terrestre, organismi transgenici vivranno nelle nostre fattorie ed animali domestici transgenici entreranno a far parte delle nostre famiglie. Non possiamo ancora dire se sia un bene o un male, ma sta di fatto che la carne e i vegetali che mangeremo non saranno più gli stessi. Nel futuro avremo noi stessi del materiale transgenico, impianti meccanici ed elettronici all’interno del nostro corpo. In altre parole, diventeremo transgenici”. L’arte può contribuire alla conoscenza delle implicazioni culturali e delle rivoluzioni ad essa sottostanti offrendo il suo punto di vista, anche quando si parla di biotecnologia. Può aiutare la scienza a comprendere il ruolo che la comunicazione e le relazioni sociali hanno nello sviluppo di un organismo. Allo stesso modo può servire a smascherare false credenze sul DNA. Può inoltre dare un contributo in campo estetico suggerendo nuove dimensioni simboliche, intersoggettive e dialogiche, come è nella volontà della Transgenic Art.
Saggio tratto da Extended Mind. Viaggio, comunicazione, moda, città, a cura di Carlotta Petracci, anno 2006.