Cyberspazio e cybercorpo. Convergenza di milioni di menti nella rete elettronica della comunicazione. Che cosa significa esattamente? Nel 2014 il Guardian si chiedeva dove fossero finite le sottoculture: mods, punks, metallari, goths, hippies; comunità-immagine, riconoscibili per gusti musicali, estetica, valori. Si domandava, nell’Inghilterra contemporanea, quali fossero le forme espressive della cultura giovanile, divenuta sempre più inconoscibile. La sua manifesta invisibilità agli occhi della sociologia tradizionale, spingeva la ricerca verso l’infinitamente piccolo. Il nuovo web, quello a cavallo del primo decennio degli Anni Duemila, con le sue modalità di socializzazione online (blog, social network, chat), aveva cambiato ancora una volta i paradigmi.
Bisognava arrivare a Molly Soda, l’iconica micro-celebrity di Tumblr, con le sue confessioni pubbliche post-adolescenziali divenute forma d’arte, per capire cosa stesse succedendo, occorreva perdersi sotto una pioggia di definizioni effimere – hypnagogic pop, chillwave, vaporwave, seapunk – per tentare di agguantare scene che duravano lo spazio di un mattino, il tempo di un tweet in piena notte. I ribelli digitali criticavano il capitalismo appropriandosene, portando la nostalgia per la cultura pop degli anni Ottanta e Novanta alle estreme conseguenze, creando musica per condizionare l’umore, proprio come nella pubblicità. Daniel Lopatin (Oneohtrix Point Never), con l’alias di Chuck Person nel 2010 faceva uscire Eccojams Vol.1, la cui copertina ricordava la custodia del videogame Ecco the Dolphin, mentre James Ferraro con Far Side Virtual incorporava squilli e suoni dei media degli anni Duemila, tra retro-futurismo e iperrealtà. Le utopie acquatiche di Drexciya evaporavano. Bastava un meme per aggregare una scena (per quanto ondivaga) e un’estetica. Ma cosa ancora più inconsueta, le star del pop – Rihanna, Lady Gaga, Katy Perry, Taylor Swift – si allineavano in tempi rapidissimi ad ogni micro-tendenza digitale.
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Nel 2012 con Atlantis, Azealia Banks consegnava al mainstream l’estetica 3D post-internet, prevalentemente vaporwave e seapunk, non tralasciando nulla: dalle onde agli squali, dalle rovine classiche alle griglie, dai colori lilla e fucsia a quelli acidi, fino ai capelli verde-plancton, dagli smile rave alle geometrie solide fluttuanti; e con un tweet si definiva una sirena. Un’arpia viziosa, pronta ad adescare i marinai per condurli alla morte. Con alle spalle questo scenario non è difficile interpretare l’originalità dell’idea di Blue My Mind, il lungometraggio di esordio della regista svizzera Lisa Brühlamann, una storia di formazione che, grazie alla commistione col genere fantastico, riesce in parte ad allontanarsi dai clichè, per quanto non manchino la ribellione adolescenziale, il rapporto controverso con la madre, il desiderio lesbico latente, la frattura col mondo dell’infanzia nell’età dello sviluppo. In Blue My Mind c’è un po’ di Spring Breakers, sfortunatamente il peggior film di Harmony Korine, e di Thelma di Joachim Trier, forse all’oggi il più interessante dei film che sconfinano nel fantastico, a partire da una sensibilità legata al new web.
Nel film di Trier, decisamente più bergmaniano, c’è un’attenzione maggiore alle dinamiche di relazione e alla psicologia dei personaggi: il rapporto con la famiglia è più tragico, il ricorso al soprannaturale non è riconducibile esclusivamente ad una trasformazione corporea dovuta all’età ma è “malattia” in senso lynchiano, ovvero una condizione che è più astratta e oscura rispetto a qualsiasi classificazione, il lesbismo è seduzione e colpa, l’infanzia è il ricordo della caccia col padre tra la neve dell’algido nord e il profilarsi di una scelta: uccidere? Quando uccidere? Tutto questo e molto altro nella sceneggiatura della Brühlamann e di Dominik Locher non c’è, e nonostante il tentativo di presentarci i conflitti di una nuova donna, sirena, ovvero strega dei mari, la storia appare piuttosto annacquata. Il finale è la diretta conseguenza del non porsi alcun problema di messaggio, dell’interrogare in maniera piuttosto superficiale e abusata un’età complessa: il primo passaggio della vita considerato all’unanimità traumatico. Non c’è interpretazione psicoanalitica che tenga, il richiamo ad una creatura leggendaria non è una discesa nel profondo, appare al contrario una facile scorciatoia per compiacere un pubblico abituato alle derive accelerazioniste. Nonostante ciò, è un’opera prima e Luna Wedler, con la sua interpretazione, lascia un segno.
Recensione pubblicata su Artribune.