Teresa de Lauretis è una delle protagoniste più note del pensiero femminista nell’ambito dei cultural studies. Prendendo le distanze dalle riflessioni degli Anni Settanta e Ottanta, nel 1990 conia il termine queer theory, con cui non solo focalizza l’attenzione sulle sessualità “diverse”, promuovendo il superamento delle identità “codificate” eterosessuali e omosessuali e aprendo la strada ai post-gender studies, ma, insistendo sul concetto di “tecnologie di genere”, sostiene che il genere sia una costruzione simbolica, che deriva dall’effetto combinato di innumerevoli rappresentazioni visive e discorsive, provenienti da diversi apparati istituzionali – lo Stato, la Famiglia, la scuola, la giurisprudenza, la medicina, ecc – e culturali: il linguaggio, le arti, la letteratura, la religione, la filosofia, il cinema e i media. Pertanto un film come Border, del regista danese di origini iraniane Ali Abbasi, tratto dal racconto Confine di John Ajvide Lindqvist, e sceneggiato grazie anche al contributo della filmmaker Isabella Eklöf, e premiato nella sezione Un Certain Regard del Festival di Cannes 2018, può diventare un interessante caso studio relativo al cinema contemporaneo, in cui il concetto di genere, sessuale tanto quanto cinematografico, viene completamente destituito di importanza.
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Oltrepassando i dualismi cartesiani, e nell’ambito del femminismo, anche quelli che sostanziavano il pensiero di una figura illustre come Simone de Beauvoir, e l’interpretazione del genere in qualità di classe, in senso marxista e materialista, chi e che cosa rappresenta Tina? La protagonista, mirabilmente interpretata da Eva Melander, all’interno di un film in cui fantastico, noir, thriller, folclore nordico, body-horror, procedural, romance, dramma esistenziale, transgenderismo, realismo magico e sociale diventano gli ingredienti essenziali di un’opera originale, che mette in crisi persino i confini tra umano e naturale? Tina è una donna, una troll, una diversa (nella direzione della disabilità, per via del suo difetto cromosomico, o della mostruosità, connessa all’esilio sociale, alla The Elefant Man), un’estranea, come il regista stesso, in un territorio straniero? Com’è il suo corpo: può o non può generare la vita? I suoi genitali sono maschili o femminili? Com’è la sua femminilità: oltre alla compassione, le appartiene o meno la dimensione della cura (in che modo si relaziona col padre, parzialmente affetto da demenza; con i figli, degli altri ma anche sul finale con il troll che le viene recapitato; con i bambini, che sono oggetto di violenza, e di quella distinzione tra umanità e non-umanità, che però non è riconducibile all’opposizione tra esseri umani e creature altre), ovvero quel compito-condizione che, all’interno della tradizione giudaico-cristiana, è prerogativa della donna? Quindi della sua dipendenza e asservimento nei confronti dell’uomo?
Il personaggio di Tina ci pone di fronte a tutti questi quesiti, attraverso il suo aspetto, le scelte che compie e in particolare attraverso la relazione con Vore (Ero Milonoff), troll ribelle e in grado di procreare, che ha il compito di condurla alla rivelazione della sua identità. Ed è in quei pochi attimi di felicità, di corse innocenti a piedi nudi in mezzo al bosco, che riscopriamo con lei il naturale perduto e una sessualità perturbante, nella fuoriuscita di un pene, nell’atto di penetrare una vagina in un corpo maschile. Le identità, e soprattutto i corpi, esattamente come sosteneva Judith Butler in Corpi che contano. I limiti discorsivi del “Sesso” (1993), sono una costruzione e in quanto tali possono essere risignificati. La Svezia pastorale e romantica si riconcilia, attraverso questa sequenza, con quella industriale, dove Tina, grazie al suo potere sovrannaturale (una sorta di sesto senso, o meglio un “naso” per il Male), che le permette di riconoscere, attraverso l’olfatto e la telepatia, le emozioni connesse al crimine – colpa, paura e vergogna -, è il guardiano della soglia nel più archetipico dei non-luoghi: la dogana. Border si muove costantemente, come dichiara il titolo stesso, in un territorio di confine: poroso, ibrido, politico, grottesco ed erotico, sotto la guida dell’inesauribile potere immaginativo dell’alterità.
Articolo pubblicato su Artribune.