Dal KW Institute for Contemporary Art all’Akademie der Künste, dall’ESMT alla Fuerle Collection, fino a una gita sul fiume con la Blue-Star. A Berlino ci siamo imbarcati in questo viaggio, alla ricerca della paradessence, l’essenza paradossale di questa Biennale, l’opera d’arte totale del collettivo newyorkese conosciuto come DIS.
Post-digitale, post-contemporaneo, post-curatoriale potremmo dire. Quando un collettivo artistico, attivo prevalentemente sul web atterra in una città come Berlino, è uno “schianto” o un nuovo inizio? Credo sia ragionevole partire da qui, per considerare con occhio critico, l’esperimento curatoriale della nona edizione della Biennale tedesca che ha visto come protagonisti Lauren Boyle, Solomon Chase, Marco Roso e David Toro, noti ai più come DIS: il prefisso che li distingue, il distopico e surreale progetto editoriale che li ha fatti conoscere in rete (DIS Magazine), il disorientante brand che li ha portati in tempi relativamente brevi alla notorietà internazionale. Artisticamente parlando, rappresentano un punto di vista squisitamente americano sulle relazioni che intercorrono tra cultura popolare, intermedialità e interdisciplinarietà, che innesta sulla crisi di valori e proposte della contemporaneità, logiche di mercato stravolte (non è un caso che due di loro, Marco Roso e David Toro, abbiano un background legato alla moda), interpretate con sarcasmo e parodia.
Basta dare un’occhiata alla campagna di comunicazione di Babak Radboy, per capire dove tutto questo circo multisensoriale va a parare. Nella homepage un trainer, forse un coach, o più semplicemente l’immagine stereotipata del salutismo pubblicitario, fisico e mentale, viene accompagnata da un’epigrafe: “I want to die with nature – not become her manager”. Continuando a scrollare, una fotografia, un video, una citazione dopo l’altra sono la conferma di una dichiarazione che sta a monte: questa Biennale è un format, che parte dalle riflessioni del filosofo austriaco Armen Avanessian sulla post-contemporaneità, interrogandosi sul ruolo e sul significato dell’arte in una società antropologicamente e filosoficamente trasformata dalla pervasività delle tecnologie, dalla loro capacità di delineare un territorio complesso in cui coesistono commercio, bisogno e culture di confine, scontro e assimilazione. Con un’estetica da banca immagine Anni Duemila, che dovrebbe rappresentare una sorta di globalizzazione di questa prospettiva internet-centrica e del suo gusto, l’aspetto smaccatamente weird dei contenuti ne esce volutamente anestetizzato, rientrando a pieno titolo in un immaginario in cui niente è fuori posto, in cui tutto è meticolosamente selezionato come in un pop up store, eccedente ed episodico come sul web, per far corrispondere il contenuto della Biennale alle strategie editoriali, di branding e marketing del collettivo. The Present in Drag è esattamente, come dichiarato sul sito, “what you expected”, una turisticizzazione manifesta dell’arte, della cultura, dei valori e delle domande ma soprattutto una parodia, che attinge a piene mani dal registro linguistico del consumismo per affrontare tutte le criticità del contemporaneo. La domanda che ne consegue è: quale futuro ci viene prospettato? La risposta dei DIS, suggerita da una delle tracce più ammalianti di Anthem, la colonna sonora della Biennale, che vede la collaborazione tra Fatima Al Qadiri, Hito Steyerl & Juliana Huxtable è Nothing Forever, che eliminando la freccia del tempo, significa anche: il presente per sempre. Siamo intrappolati e posseduti dai nostri fantasmi. Quella che però a più riprese è stata descritta come una condizione di incertezza paralizzante, per la prima volta, in una manifestazione internazionale, viene accelerata. Il collettivo newyorkese sostiene che ci sia un potere fortemente energizzante nel periodo storico che stiamo vivendo e che vada accolto con una fervente voglia di agire e partecipare, per questo motivo l’accento viene spostato sul coinvolgimento e le esplorazioni di super-gruppi di artisti e creativi, in un ottica di rete reale e virtuale. I sorrisi plastici delle campagne di Telfar, i manichini da vetrina, lo stesso modo in cui i DIS si fanno ritrarre, fanno parte di una retorica comunicativa che riconduce il mondo ad un shop online, un duty free da aeroporto, ambienti di passaggio in cui vengono sospese le tradizionali distinzioni tra utopia e distopia, impegno e disimpegno. I temi della Biennale del resto sono quelli ricorrenti di altre manifestazioni e dibattiti internazionali: la sorveglianza, il rapporto tra virtuale e reale, le nazioni interpretate come brand, le persone come dati, la cultura come capitale, il wellness come politica, la ricerca della felicità come territorio di contesa tra l’acquisto di un paio di sneakers, l’ossessione di una dieta e la rapida obsolescenza di ogni desiderio. La differenza sostanziale dell’approccio dei DIS sta nella scelta di non vivere questa condizione con l’ansia dello spettatore. Probabilmente si può suggerire un cambiamento dall’interno; forse è già in atto, esattamente come la tecnologia e il suo utilizzo inaspettato trasformano le nostre abitudini prima della consapevolezza.
C’era un tempo in cui i muri si abbattevano. Al primo piano del KW Institute for Contemporary Art, sede storica della Biennale, il collettivo italo-londinese åyr ci presenta in un’istallazione una reinterpretazione del muro di Berlino, dove sono stati ricreati dei loculi abitativi che ricordano alcune architetture effimere di Tokyo, che si inseriscono nel tessuto urbano andando ad occuparne gli interstizi. Una bella metafora per spiegare due dei concetti portanti della curatela: da un lato la “vaporizzazione” dei confini, che va ben oltre la liquefazione perché rende la materia, e quindi anche le contrapposizioni, invisibili, dall’altro l’idea di andare ad occupare gli spazi lasciati vuoti (un vuoto di conoscenza: speculativo e riflessivo) dal sistema dell’arte. La “paradessence”, l’essenza paradossale di cui parlano i DIS, è esattamente questo: la genderfluidity di Boychild, la visione ultrasensoriale della fine del mondo di Cecile B. Evans in What the Heart Wants, che emana da uno schermo gigantesco al fondo di un giardino acquatico al KW Institute for Contemporary Art, dove corpi reali, orecchie fluttuanti e rendering di deserti si avvicendano come in Atlantis di Azealia Banks, il videoclip che ha consacrato il post-internet al pop, suggerendo un immaginario dove tutto, compreso l’amore è diventato merce e dove non esiste possibilità di fuga dagli imperativi ecologici e post-democratici e dalle superfici. Con presupposti radicalmente diversi, incontriamo lo stesso spirito nell’installazione di Anna Uddenberg con le sue donne-manichino ibridate con trolley da viaggio. Una di loro si trova di fronte alla vetrata dell’Akademie der Künste, intenta nell’immortalare il proprio back. Il cortocircuito visivo che deriva dalla giustapposizione dell’opera e dalla vista di Pariser Platz, stracolma di turisti, pullman e brand è incredibile. Una scelta che non suggerisce una critica ma che solleva piuttosto un interrogativo. Quando un collettivo artistico viene investito della carica di curatore, siamo proprio convinti che non realizzerà una gigantesca opera d’arte totale?
Articolo pubblicato su Espoarte.