La moda oggi è un tessuto di informazioni, una trama che connette corpi, scene, mondi. I suoi appetiti sono accuratamente selezionati perché è antropofaga e non onnivora; i suoi prodotti sono altamente codificati perché riveste i corpi come una seconda natura; una sorta di seconda pelle tutta mentale e artificiale che rivela il nostro essere sociale, la nostra identità relazionale. Sebbene sia importante distinguere tra fashion design e styling– dove il primo pensa e produce idee da indossare riflettendo criticamente sulla contemporaneità mentre il secondo abbina e accorpa significanti in maniera nostalgica o acritica – è vero che entrambi confluiscono in quel territorio magmatico e metamorfico che è la moda. La nostra quotidianità esteticamente condivisa attraverso i media e il corpo, esso stesso considerato come medium e interfaccia connettiva: ossia Bodyscape. Dal momento in cui la pervasività della comunicazione investe corpi, culture e società, il corpo diviene uno scenario attraversato da una molteplicità di codici in transito. Luogo di individuazione, lettura e interazione col mondo; soglia e varco d’accesso per soggettività dilatate, moltiplicate e disseminate nei flussi della comunicazione.
Il corpo vestito è il più importante elemento simbolico di marcatura dell’identità (Kyra Pistilli Ornella, Dress Code, pag.16), poiché ci si percepisce e interpreta attraverso ciò che si indossa e i vestiti possono cambiare le percezioni del mondo, permettendo di partecipare e appartenere. L’abbigliamento e i gesti, in quanto linguaggi del corpo, hanno un valore capitale (da intendersi in termini di rilievo ma anche in senso letterale, ossia come risorse culturali spendibili all’interno dell’attuale mondo globalizzato, in cui economico e culturale sono inscindibili) nella definizione e costruzione del sé. Essi rendono possibili le relazioni in-formandole entro uno scenario dominato e determinato dalla riproducibilità digitale. In cui scienza, tecnica, consumo e cultura fanno corpo unico, dettando le regole di un gioco che è quello del cambiamento repentino e perpetuo; della volontà di significare e simbolizzare; di partecipare, vivere, e desiderare l’alterità. Per questo motivo la moda è tempo, frequenza che detta ritmo, obsolescenza e territorio in cui confluiscono arte, musica, cultura, consumo e comunicazione; in cui per frammenti di geografie mobili si riconosce il mondo che si abita: i suoi conflitti, le ambiguità e le contraddizioni che inneggiano alla tragica quanto sublime poetica della fugacità.
La moda si interfaccia con tutto; il suo corpo è ibrido, metamorfico, mutante. All’interno del suo lessico cosmopolita si usa distinguere tra clothing e dress, tra vestiti e accessori, pratiche e aspettative che ne determinano l’impiego, la scelta, la combinazione, le occasioni in cui vengono indossati e codificati. Il discorso sulla moda chiama allora in causa il dress code, l’abbigliamento codificato, e le problematiche legate allo stile – comunitario e individuale – che oggi diviene una questione assai complessa, accompagnandosi alle riflessioni sull’identità, di persone, comunità, luoghi e territori tutti ugualmente “in viaggio”. Lo stile è il codice operativo che suggerisce sensibilità, attitudini, abilità; che segnala appartenenza culturale e informa sulla filosofia e le visioni del mondo. Ma senza necessariamente condurre alla staticità, poichè nel mondo attuale, formato e informato dalle tecnologie, i regimi di significazione sono contestuali. Ossia differiscono in relazione al cambiamento di contesto. Come nota Ornella Kyra Pistilli lo stesso capo non necessariamente significa il “medesimo”, può cambiare significato. Il cappello di alpacca del Perù indossato a una manifestazione contro la politica globale del WTO, dice un’infinità di cose profondamente lontane dalla medesima presenza all’interno della sfilata prêt-à-porter autunno-inverno 2002 dello stilista John Galliano.
Nel primo caso si pone come immagine simbolica di critica culturale e antagonismo sociale – che reitera l’etica e l’estetica dell’essere contro: contro la logica dei brand, la produzione seriale, lo sfruttamento del lavoro minorile nei paesi in via di sviluppo, il fashion system, la società dello spettacolo – nel secondo denota l’atteggiamento blasé e disincantato tipico del fashion system, che con ironico distacco e annoiato relativismo riflette, in maniera più o meno interessante, sul regime dell’appartenenza, sul potere del brand e sulla visione postmoderna della moda etnica. Su come di fronte al ritorno a uno stato di aggregazione pre-sociale o neo-tribale sia impossibile esulare dalla codificazione e stilizzazione del corpo, ossia dall’iscrizione sulla sua superficie di sistemi di valori e gerarchie sempre più stratificati. È importante ricordare infatti che non esistono zone dell’agire sociale libere da dress code. Emblematico è il caso dei “punkabbestia”, la cui poetica di vita randagia produce un abbigliamento e una concezione del corpo tutto, incluso il suo odore. Ciò è importante poiché se da un lato si considera l’ermeneutica del dress code in chiave prettamente visiva, dall’altro anche l’odore va considerato in qualità di informazione.
Un’informazione codificata o brandizzata, come ci dimostrano i luoghi del consumo e i marchi stessi, per i quali i sapori, gli odori, i suoni e le superfici comunicano in maniera coordinata il mindstyle. Per i quali gli ambienti, come i vestiti, sono manifestazione di filosofie e visioni del mondo, dal momento che la moda, in tempi di globalizzazione, va a braccetto con comunicazione e consumo, al quale detta le regole della periodicità, della variabilità, dei ritorni e delle persistenze. Moda come modi e discorsi che vi confluiscono e si incrociano disegnando mappe cangianti di un territorio sconfinato e in continuo divenire, caratterizzato da una forte codificazione. La quale non sta solo in chi la adotta, ma anche in chi la osserva: è nelle correnti della comunicazione delle metropoli contemporanee, tutte materiali e immateriali, che si realizzano le performance del senso. I dress code scaturiscono dal gioco incessante della comunicazione e delle differenze attraverso reti di rimandi, percorribili in direzioni non prestabilite, che fanno dei segni rebus, mai leggibili a partire da una chiave interpretativa univoca e assoluta, al contrario aperti a sempre nuovi significati, che scaturiscono dall’abitare personale. Di qui la complessità del rapporto tra segno-significato, significato-significante che dipendono da: chi indossa un abito, con quale attitudine, in quale contesto, a partire da quale posizione sociale, da quale ambito culturale di appartenenza, determinando sistemi di combinazioni riproducibili all’infinito e in grado di riferire delle mutevoli modalità dell’essere, di individui, luoghi e comunità, che a partire dalla loro cultura abbracciano la natura prescrittiva o la logica sperimentale dei dress code.
Il primo caso comprende i vari modi di tematizzare luoghi e esperienze, suggerendo con l’abbigliamento modelli di comportamento omogenei, che le door policy, funzionando da dispositivi di inclusione-esclusione, ribadiscono. Differenze incasellate, gerarchie rigidamente stabilite e pratiche sociali codificate a partire dall’abbigliamento indossato (cosa indossare, come, quando e cosa escludere) – come accade nella scena BDSM – permettono di capire “chi-fa-cosa-a-chi” (Kyra Pistilli Ornella, Dress Code, pag.37), ossia in che modo il corpo individuale veste, in maniera automatica, quello della collettività, rispettando la connotazione semantica dell’ambiente, costituito dalle persone, dall’arredamento, dall’architettura, dalla serata stessa. Analogamente accade nelle società strutturate dove il dress code disciplinare, prescrittivo e obbligatorio, stabilendo attraverso l’abbigliamento ordini, modelli di interazione e linee di condotta, opera come una psico-tecnologia, che agisce sulla percezione alterando l’ecologia della mente, promuovendo l’incorporazione del potere e la negazione della libertà. Intesa come possibilità di determinare da sé le condizioni del proprio dress code, di farlo funzionare come dispositivo che connette criticamente corpo, mente e ambiente. Il dress code liberato e animato da una logica sperimentale è quello della realtà metropolitana, in cui la moda va in pezzi e si ricolloca con paradossali risultati sui corpi individuali. Il metodo è quello dell’assemblaggio, del montaggio, delle giustapposizioni, del cut-up, degli incroci, degli innesti, dei dialoghi a distanza e delle citazioni, attraverso le quali il soggetto si riappropria della vita, sottraendosi alle sollecitazioni e agli imperativi dell’estetica di massa e ai dettami del total look degli Anni Ottanta.
Saggio tratto da Extended Mind. Viaggio, comunicazione, moda, città, a cura di Carlotta Petracci, anno 2006.