Rize, il film documentario presentato al Sundance nel 2005, diretto da David LaChapelle, affronta il tema della resistenza creativa all’interno dei ghetti di Los Angeles, di fronte all’assenza di opportunità lavorative, scolastiche, di crescita e di impegno sociale; ed è un’opportunità per mostrare l’orizzonte prismatico del corpo e delle sue possibilità dichiarative. Il corpo è una materia complessa e enigmatica, in cui pensieri, sentimenti, azioni, avvenimenti, sensazioni coabitano, determinando trasformazioni sociali, antropologiche, umane, poetiche, politiche e ecologiche in continuo divenire. Dandosi come luogo dell’abitare, del fare e del generare, pone di fronte al problema dell’attribuzione e dell’organizzazione del senso: dell’esistenza, della storia, dell’esperienza collettiva e individuale, spingendo a interrogarci sulle nostre e altrui condizioni di vita. Scegliere di parlare di Rize dunque significa aprirsi a una riflessione che induca a prendere in considerazione la spinta vitale, il disagio e la liminalità, come punto di partenza per nuove forme di espressività.
Nel documentario David LaChapelle ritrae, con ricchezza di particolari e uno stile ibrido, in cui sono rintracciabili influenze provenienti dal reportage e dal videoclip, la scena hip hop alternativa delle inner cities di Los Angels, tracciando, allo stesso tempo, l’affresco di una comunità problematica, divisa e in parte unita, che ricerca nella musica e nella danza le soluzioni e le vie di fuga alle delusioni del quotidiano e ai pregiudizi ambientali relativi al ghetto, come luogo di corruzione, degenerazione, violenza e noia. Si tratta di una scelta di genere in parte convenzionale, soprattutto se si risale agli Anni Ottanta e si considera la presenza al Sundance Film Festival di altri tre film – due del 2005, lo stesso anno in cui entra in concorso Rize, e uno del 1991, che focalizzano l’attenzione sull’artisticità delle sottoculture, legate alla musica e al ballo. Tra i film citati troviamo: Hustle & Flow – Il colore della musica di Craig Brewer, in cui Memphis, abbandonato il mito di Elvis Presley, viene presentata come la Mesopotamia della musica moderna, mentre il rap come un catartico processo di recupero e ritorno alle origini; Lackawanna Blues di George C. Wolfe, un montaggio di racconti contemporanei ambientati nei lontani Anni Cinquanta che, attraverso l’impianto del musical, ricordano le faide di strada di West Side Story, facendo della musica il luogo del respiro, dell’ironia, della consolazione e delle opportunità; Paris is Burning di Jennie Livingstone, del 1990, vincitore del Gran Premio della Giuria nel 1991 in cui, analogamente a Rize, viene presentata una scena legata al ballo, in cui si ricrea un forte senso di famiglia a partire da condizioni di disagio sociale.
La differenza tra i due ultimi documentari consiste principalmente in alcune scelte politico-stilistiche, tra cui: gli ambienti urbani scelti per la storia – Harlem per la Livingstone e la West Coast per LaChapelle –; il periodo storico di riferimento – gli Anni Novanta e i primi Duemila -; e lo sguardo con cui viene condotta e tagliata l’indagine – più antropologicamente impegnato quello della Livingstone, che intervistando i pionieri della Ballroom scene newyorkese, spiega le origini nere del voguing; più socialmente impegnato e dialogico quello di LaChapelle, che parte dalla fondazione del clowning per arrivare al krumping, mettendo in luce il suo spirito di denuncia. A ciò va aggiunto che, mentre da un lato ci troviamo di fronte a un documentario socio-antropologico sulle subculture, dall’impostazione tradizionale, dall’altro, con Rize, siamo chiamati a focalizzare l’attenzione su una vera e propria corrispondenza stilistica tra filmmaker e oggetto dell’indagine, entrambi contrassegnati da una sensibilità crossover – tipica tanto della produzione artistica del fotografo hollywoodiano, quanto della geografia territoriale e sociale della West Coast – grazie alla quale vengono incorporati anche momenti storici importanti per la black & latino consciousness. Le immagini di apertura si riferiscono alla Watts Rebellion del 1965, commentata da una voce fuori campo con le seguenti parole: “Civil rights leaders were quick to deplore the unbridled lawlessness”, “and Marting Luther King vowed to do all in his power to prevent recurrence, in Los Angeles or anywhere” (Los Angeles Times, June 12, 2005), mentre quelle finali riportano all’esplosione dei disordini nel 1992, in occasione dell’assoluzione dei quattro agenti di polizia implicati nel pestaggio di Rodney King. Il documentario dunque incrocia: riflessioni sulle condizioni di marginalità, povertà e iper-segregazione caratteristiche del paesaggio californiano; approfondimenti sulla vita di strada; influenze provenienti da film musicali e coreografie dei videoclip.
La specificità di Rize sta, non solo nella scelta tematica – lo sviluppo di un vero e proprio dance movement – ma anche nella sua trattazione; la parola assegnata ai ballerini gli permette di parlare dell’origine e dello sviluppo del fenomeno e di un’attitudine performativa caratteristica, oltre che del contesto USA, di un clima culturale più vicino all’hip hop delle origini. Il krumping rappresenta una diversificazione, oltre che in termini di stile e di approccio, rispetto al movimento del clowning. Il Krump, o krumping, che nel linguaggio dei ballerini significa ghetto ballet, è infatti una versione spasmodica della breakdance, acrobatica e sexy, caratterizzata da una dimensione ipercinetica, competitiva, tribale e teatralmente aggressiva. Mentre il Clown, o clowning, dal nome del suo fondatore Tommy the Clown, Thomas Johnson, pur rappresentando il suo antecedente storico, si qualifica per una tensione principalmente ludica, carnevalesca, finalizzata all’intrattenimento e al coinvolgimento. Tra le due correnti esiste comunque un profondo legame determinato dalla medesima questione territoriale. La geografia di Los Angeles e della stessa West Coast, è alquanto controversa; da un lato, vanta un paesaggio naturale suggestivo, molto diverso dall’aspetto più minaccioso dei ghetti di New York, dall’altro, è caratterizzata da una notevole complessità, per la compresenza di multietnicità e segregazione – immigrazione dal Sud America, dal Nord America, dalle coste asiatiche attraverso il Pacifico e presenze legate alla diaspora atlantica -, povertà e violenza: prodotto di quel processo di zonizzazione che ha creato divari socio-economici enormi tra i diversi quartieri, a cui si collegano anche la tendenza al mimetismo delle architetture dei vip e gli accessi regolati della classe alto-borghese. Per le giovani crew di clown di South Central e della vicina Inglewood la danza è la modalità privilegiata di storytelling: un modo per raccontare la storia quotidiana e passata.
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Queste, almeno, sono le intenzioni di Tommy Johnson, ispiratore e leader del clowning, nato nel 1990, quando, uscito di prigione, sceglie la via della reintegrazione sociale, creando un movimento capace di tenere insieme hip hop e religiosità. DJ e performer Tommy comincia la sua missione travestendosi da clown e partecipando ai party della chiesa evangelica locale, dove spesso gruppi di ragazzi si sfidano a colpi breakdance. Arricchendo successivamente il suo stile con passi alla Michael Jackson, influenze provenienti dai primi B-boy e riallacciandosi al vibrante movimento della seconda metà degli Anni Ottanta conosciuto come Trendy, inizia a veicolare i suoi messaggi di pace e autenticità, oltre che di rottura con la scena dell’hip hop commerciale e i valori negativi del suo immaginario da gang di strada, guadagnandosi un seguito sempre più ampio, consentendo il passaggio del clowning da fenomeno di tendenza, a movimento, a stile di vita e a strategia di distinzione: complice l’inclusione di alcuni ballerini nei video di Christina Aguilera e Missy Elliott. L’atteggiamento prettamente ludico e ispirato al riso – classificabile come un tentativo di portare gioia in luoghi, vite e ambienti che ne lamentano l’assenza – si radicalizza successivamente attraverso vere e proprie competizioni di danza, chiamate Battle Zone, e interpretate come laboratori di una forma d’arte emergente, i cui guadagni permettono a Tommy di fondare l’Hip Hop Clown Academy. Ovvero il luogo di diffusione capillare del clowning, della sua sistematizzazione – rintracciabile oltre che nella scelta di un travestimento-divisa: abiti e scarpe oversize, parrucche colorate afro e trucco da clown con colori arcobaleno, un po’ Bozo e un po’ Parliament-Funkadelik, anche nella distinzione tra i vari stili: clown-walking, tic-toc, wobble, twist-walk – e del suo perfezionamento.
In seguito ai tumulti del 1992, le questioni razziali tornano a tingere di nero le strade e le sue scene musicali, compreso il clowning, che lentamente abbraccia una dimensione più profonda, rabbiosa e emotivamente partecipata, evolvendo nel Krump. Il distacco si compie per opera di alcuni clowner particolarmente carismatici: Christopher Toler a.k.a. Lil C, Cesare Willis a.k.a. Tight Eyez, Jason Green a.k.a. Dragon, Marquissa Gardner a.k.a. Miss Prissy, anche conosciuti come The Bad Boyz, tra il 2000 e il 2001, che recuperano l’hip hop nella sua forma più cruda, palesando uno stile molto più scuro. Ne consegue un aspetto più sinistro, contraddistinto dalla sostituzione dei colori accessi e caramellati con il war camouflage, che si accompagna al desiderio dei ballerini di incanalare in questa forma d’arte le loro storie quotidiane e le loro frustrazioni, spingendo verso un maggiore individualismo, di cui sono prova le Krump Session: in cui i ballerini non fanno più comunità e non si alternano più al ballo aspettando il proprio turno, bensì si interrompono continuamente a vicenda per dimostrare al pubblico chi è il migliore. L’atmosfera è da Fight Club, escludendo però la violenza vera e propria, e richiamandosi alla sua teatralizzazione, come nella Capoeira brasiliana , da cui vengono mutuati movimenti e spirito, e spinti verso una dimensione eccessiva, quasi di possessione demoniaca. Col termine getting krumped infatti già durante le competizioni di clown si identificano quei momenti in cui i ballerini sono al massimo delle loro capacità espressive, fisiche, e in una sorta di stato mentale trascendente, che corrisponde alla trance, che si traduce in una vera e propria Out of Body Dance Experience (TimeOut, New York, April 14-20, 2005), dimostrando l’affascinante e tragico sodalizio tra tribalismo e modernità: rapture adrenalinica, freestyle e spiritualismo. Senso della memoria – i krumpers infatti si fanno chiamare anche The children of Rodney King, poiché nelle coreografie ripropongono il suo pestaggio-, determinazione e speranza finalizzate a “blurs the lines between theater and real violence” e “rizing out of the ashes”, non per mezzo della violenza delle parole, ma attraverso la potenza del corpo.
Saggio tratto da Extended Mind. Viaggio, comunicazione, moda, città, a cura di Carlotta Petracci, anno 2006.