Detroit è un pugno allo stomaco. Qualcosa d’inimmaginabile. Ci sono arrivata un pomeriggio d’inverno, dal cielo terso e l’aria stranamente frizzante. Dico stranamente, perché in realtà mi aspettavo il gelo del nord, il vento del Canada. Niente di tutto questo, sulle prime. Solo una strana sensazione di vuoto. Mentre il taxi scivola lento nelle ampie strade della città, guardo dal finestrino. Non una macchina in movimento, non un’anima. E tra me e me penso: “L’America è grande”.
Il taxi si ferma, scendo. Mentre aspetto, fumo una sigaretta. Bello, finalmente un luogo negli States dove fumando per strada non ti senti un drogato. Intanto una strana sensazione mi prende allo stomaco. Un displacement istantaneo, fortissimo. Sono sola. “Hey? Carlotta!”. Sento alle mie spalle qualcuno. È Heath. Il mio “Bricks. Big Windows. Good design” (cit. Airbnb). Mi volto di scatto, un maschio bianco, molto fit. Sembra simpatico. Ci salutiamo amichevolmente come si fa oltreoceano. Apre la porta. Salgo sul montacarichi ed eccomi dentro a un meraviglioso loft dalle ampie e luminose finestre, rigorosamente di design, con la palestra in casa. Detroit non è poi così male, penso. Faccio due parole al volo, senza prestare troppa attenzione. Esco di corsa. Devo vedere la città.
Agorafobia
Non è cambiato niente dal mio arrivo. Cammino. Strada, strada, strada, cavalcavia, strada, angolo, strada, angolo, strada. Nessuno. Mi guardo le spalle. Il vento soffia, foglie secche e cartacce si alzano roteando, vedo un ragazzo in lontananza. Accelero per fotografarlo. Sullo sfondo il Fisher Building, il cuore del New Center. Epic shot. Heath abita qui. In una delle aree residenziali di Detroit, tra la Wayne State University e l’headquarter della General Motors, considerata oggi solo “the world’s biggest ghetto”. È di una gentilezza caramellosa. Vive da solo. È maniacalmente ordinato. La sua casa sembra un’astronave, c’è tutto. Se dovesse finire il mondo, sarebbe completamente autosufficiente. “The indoor american way of life”. Ho capito in fretta come funziona. Casa, automobile, lavoro, casa, grocery, centro commerciale. Saltuariamente ristorante o pub. Apparentemente non c’è niente di strano. Soprattutto d’inverno, ma a Detroit fa un effetto diverso, perché la Motor City sembra il set di un film di fantascienza ed è quasi completamente disabitata. Ritorno sui miei passi. Strada, strada, strada, angolo, strada, angolo strada. La città è a scacchiera, senza mappa è un labirinto. Scende presto la sera. Camminare non è una cosa che si fa a Detroit. Le persone, quelle poche che si incontrano, si nascondono nel buio, guardinghe. I passi mettono paura. I miei soprattutto. Le auto sfrecciano, i fari abbagliano. Anime nere, vestite di nero. Sento ancora il loro sguardo mentre procedo a testa bassa. Intimidite e allarmate sussurrano: “Where are you going?”.
Anticittà
Il Midtown si snoda lungo una via lunghissima che conduce al fiume. È un cantiere senza fine. Da quest’area partirà il rilancio della città. Così dicono. Ma il pensiero lascia un certo amaro, perché il Midtown, o meglio, quella porzione di Woodward Ave che prende questo nome, è una grande strada trafficata in mezzo al nulla. Un susseguirsi di locali, pub e altre attività che si dispongono in fila creando una percezione di città che in realtà non esiste. Basta svoltare l’angolo, uno qualsiasi, e l’illusione finisce. Lì inizia Detroit. Declino industriale, sprawl urbano. La città cresce e muore nel disordine. Da sud a nord, dal New Center al Downtown appare come una linea retta ma è impossibile percorrerla così. Detroit si lascia attraversare in maniera ondivaga. Nel suo deserto, ogni elemento è motivo di attrazione. Al complesso e intricato paesaggio delle infrastrutture della viabilità fa da corrispettivo uno scenario post-apocalittico. Case sventrate, fabbriche abbandonate, brandelli di quartieri. Rovine e auto di lusso separate da una via. I detroiters quando parlano dei suburbs dove vivono, dicono che sono circondati dalla città e non il contrario. Perché il Motown, con la sua geografia costruita sul concetto di automobile, è una presenza magmatica e tentacolare, che manda completamente in crisi il moderno ed europeo concetto di città. Detroit è l’America nella sua forma più radicale. Isole sicure, punti da raggiungere. Il suono delle highways che non ti abbandona mai. Il fiume è un punto di riferimento inconfondibile. Forse l’unico della città. In mezzo c’è Belle Isle, il paradiso dei turisti. Dall’altra parte c’è Windsor, il centro abitato più a sud del Canada. Alle spalle i grattacieli del centro con i loro bar tirati a lucido. Lo sfavillio argenteo del General Motors Renaissance Center. Il rumore delle rotaie della sopraelevata. Le auto di Jefferson Ave.
Detroiters
“Excuse me madame?”. Rifugiata in uno Starbucks, una voce mi interrompe. Un uomo, col suo cumulo di stracci, mi chiede un accendino. Non mi ero accorta di lui, neppure del suo vociare e gesticolare scoordinato. L’apparente quiete di questa città inghiotte ogni timida presenza. Un pensiero repentino mi attraversa la mente: “Chi sei? Chi eri?”. A Detroit quasi il 90% per cento della popolazione è nera o immigrata. Una cospicua parte lavorava nell’industria automobilistica e dopo il crack si è ritrovata in strada. Molti di loro non hanno cultura, dice Heath. In una città dall’economia distrutta e che non ha più bisogno di manodopera non hanno potuto reinventarsi. Così appaiono a intermittenza, come le luci natalizie. Sono i fantasmi della Ghost Town. Alzo la testa, guardo la cima dei grattacieli da cui si irradia un tramonto color pesca. Di giorno si riempiono, la sera si svuotano. L’élite li abbandona per tornare nei boroughs. Quotidianamente si riversano nelle autostrade, macinano chilometri. È come fosse in atto una guerra di secessione silenziosa di tutti contro tutti. Dove il risultato è che non si vede più nessuno. Sarà per questo che tutti guardano Detroit intrappolati tra fascino e curiosità. È il nuovo sogno americano. La nuova terra promessa della libertà. Un territorio sconfinato tutto da rifare. Su cui costruire una nuova idea di città.
Reportage pubblicato su Wu Magazine, issue 56.