Come osserva Manuel Castells oggi “le nostre società sono sempre più strutturate sull’opposizione bipolare della Rete e dell’Io”, constatazione che spinge a considerare il territorio, luogo di formazione dell’identità e della socialità, come una presenza debolmente radicata che si costruisce a partire dall’“intersezione dello spazio locale della vita e di quello globale della comunicazione” (Dematteis Giuseppe, in Bonora Paola, Comcities, pag.58). Essendo attraverso il linguaggio, il codice simbolico, che le società umane intervengono e strutturano l’organizzazione territoriale, appare evidente che in merito alla sua estensione e moltiplicazione si possano generare forme di innovazione, il cui substrato coincide con l’elaborazione di nuovi significati, valori e modelli culturali. Questi ultimi, che guidano il mutamento materiale, i comportamenti, le decisioni e le azioni possono contribuire al rinnovamento del “senso” del luogo e parimenti ad un suo sviluppo in termini economici. Il territorio, dunque, “accresce la sua importanza nella misura in cui le relazioni globali intensificano le relazioni a distanza tra i territori, li frammentano e li riconnettono per generare vantaggi competitivi ed estrarre valore dai diversi milieu, mettendo al lavoro le società locali” (Dematteis Giuseppe, in Bonora Paola, Comcities, pag.58).

View to western wall jerusalem and dome of rock. Photo: Anton Mislawsky.

In questo processo, che si realizza in uno spazio altamente incerto, lavorato e agito da una pluralità di forze (interne-esterne; lontane-vicine; materiali-immateriali), le identità possono giocare un ruolo attivo o passivo, fungere da strumento di difesa e resistenza nei confronti dell’extraterritorialità del potere globale, oppure essere soggette a spinte disgregative e antagonismi. Con sguardo critico rivolto alla geografia si nota che l’illusione dell’omogeneità reticolare tende a mimetizzare la reale condizione di gerarchizzazione dei luoghi, per cui, accanto a zone iper-tecnologiche e connesse, vere e proprie capitali dell’economia mondiale, troviamo i mondi della fame e della sete, territori dell’assenza in cui le comunicazioni sono interrotte e le condizioni di malessere sembrano ridursi a delle esili braccia tese. Così scopriamo come all’interno della società globale nella quale viviamo, effimera conquista di generazioni di viaggiatori, l’idea di muoversi possa avere significati radicalmente opposti a seconda del caso in cui si configuri come una libera scelta o un’effimera speranza di miglioramento di vita.

Jerusalem, Israel. Photo: Blake Campbell.

Nuovi divari amplificano fratture antiche, così i poveri del mondo sono costretti a migrare nei luoghi in cui il capitale si accumula nel tentativo di trovare un lavoro. Come sostiene Jeremy Rifkin: “la globalizzazione dei flussi finanziari, delle comunicazioni e dei trasporti ha velocizzato il flusso globale del lavoro e il mondo sta vivendo un grande sommovimento migratorio, in cui singoli individui e interi popoli raccolgono i propri averi e si mettono in viaggio, seguendo i flussi del capitale. Ogni anno milioni di uomini si spostano, muovendo da sud a nord e da est a ovest, per trovare nuove opportunità economiche in terre più ricche. Intere popolazioni diventano nomadi, come lo sono stati gli ebrei per duemila anni” (Rifkin Jeremy, Il Sogno Europeo, pag.261). Le diaspore culturali sono veri e propri esodi di folle disordinate alla ricerca di nuovi territori nei quali insediarsi, pur mantenendo, nel contempo, obblighi e legami nei confronti della propria patria, che può definirsi in termini di territorio, usanze condivise, lingua comune, folclore, religione (Rifkin Jeremy, Il Sogno Europeo, pag.261).

Western Wall. “Wailing Wall”, Jerusalem, Israel. Photo: Bob Wilson.

Le immigrazioni postmoderne del XXI secolo sono cosa ben diversa dal precedente modello assimilazionista, che tra Ottocento e Novecento ha portato alla definizione del concetto di melting pot. Grazie alla rapidità delle comunicazioni e dei trasporti si ha la possibilità di vivere contemporaneamente in due mondi, di mantenere viva la cultura “qui-come-là” (Beck Ulrich, in Rifkin Jeremy, Il Sogno Europeo, pag. 262), attraverso un continuo pendolarismo che realizza un genere di appartenenza mobile, che si lega più a una condizione che a un territorio nazionale. Nella nuova era in cui l’idea di confine geografico è sempre più difficile da sostenere, le culture, che esistono in dimensioni multiple, sembrano riorganizzarsi secondo il paradigma reticolare del network, configurando comunità transnazionali che richiamano ad una sfera pubblica genuinamente globale, in relazione alla quale l’identità si struttura attraverso un processo fatto di attraversamenti e operazioni di bricolage.

Western Wall “Wailing Wall”, Jerusalem, Israel. Photo: Bob Wilson.

Mentre Arjun Appadurai si interroga sul linguaggio che le diaspore culturali devono ancora riuscire a creare “per descrivere forme di legami complessi, non territoriali ma postnazionali” (Appadurai Arjun, Modernità in Polvere, in Rifkin Jeremy, Il Sogno Europeo, pag.267), pare allo stesso tempo necessario stabilire se l’integrazione reticolare possa sostituire il radicamento territoriale. Se, come sostiene Jeremy Rifkin, il territorio “è molto più che una banale convenzione sociale” bensì “uno stato dell’essere” (Rifkin Jeremy, in Fiorani Eleonora, La Nuova Condizione di Vita, pag.111) in relazione alla terra, luogo in cui si formano e si consolidano i legami più profondi tra gli uomini (Rifkin Jeremy, in Fiorani Eleonora, La Nuova Condizione di Vita, pag.111), non saranno certo le connessioni elettroniche a soppiantare questo rapporto primordiale, mediato dalla materialità e modellato sulla prossimità. Nell’attuale scenario che si struttura a partire da una molteplicità di panorami che si intrecciano, in cui abbiamo sempre più a che fare con tecnologie che “parlano” ideologicamente, plot televisivi che “si solidificano” finanziariamente, etnicità che “si attraggono” mediaticamente, il territorio, segnato da attraversamenti, mescolanze, temperature, salinità, colori e sapori diversi, diviene extraterritoriale (Canevacci Massimo, Sincretismi, pag.31). Affermare l’identità culturale oggi allora potrebbe significare qualcosa di diverso rispetto al passato, non più disancorarla o isolarla dal contesto territoriale quanto liberarla dai suoi confini, fisici e mentali, renderla fluida e plurale, traslocandola nell’alterità.

 

Saggio tratto da Extended Mind. Viaggio, comunicazione, moda, città, a cura di Carlotta Petracci, anno 2006.