Che cosa sono realtà e immaginazione? In che modo possiamo fuggire alla prima, richiamandoci alla seconda? Ma soprattutto, ripensare la nostra identità a partire da una maschera ci può consentire di trovarla alla fine del viaggio, attraverso un percorso di espiazione e accettazione del dolore, fino alla completa liberazione? Siamo ciò che scegliamo, anche quando le nostre scelte sono uno slalom tra i rifiuti, e possono apparire tutt’altro che volute. Dogman di Luc Besson, presentato in Concorso al Festival di Venezia 2023, è una favola nera, piena di luce.
Un lunghissimo flashback, interrotto solo da qualche battuta con la psichiatra della prigione, che segue l’arresto di Douglas. Un uomo sulle prime enigmatico, come denuncia il travestimento da drag: l’iconico vestito rosa di Marilyn e la parrucca bionda imbrattati dal sangue, in seguito ad una colluttazione. Senza troppe ritrosie, le confessioni scorrono a fiume. Douglas parla perché è grazie al potere della parola che riesce a fare pace col passato, consentendo allo spettatore di vivere – anche se in forma mediata – la sua stessa esistenza rocambolesca, riflettendo su cosa significhi avere una famiglia. Cresciuto in un contesto violento con una madre debole, la cui unica “virtù” è darsi alla fuga, e un padre che lo sottopone a continue vessazioni, il nostro enfant prodige che conosce Shakespeare a memoria e dimostra non poca propensione allo spettacolo trova l’amore in un gruppo di cani. Diventa parte del branco, ma anche regista delle loro gesta. Douglas dopo un colpo di fucile sparatogli dal padre che lo priva per sempre di un dito e dell’uso delle gambe, fugge e abbraccia una vita randagia che, come tutte, è priva di strade e costellata di sentieri, spesso interrotti. Il migliore dei viaggi possibili, anche se non il più semplice.
Cercando di non indulgere in spoiler, perché l’aspetto più interessante del film senza dubbio sono le avventure del protagonista e dei suoi amici speciali, oltre alla particolare alternanza tra momenti drammatici e sorrisi strappati, riconosciamo la mano di un grande regista, un profondo conoscitore del linguaggio cinematografico, dei generi e della cultura pop. In Dogman nulla è nuovo, eppure grazie alla performance dell’attore protagonista, Caleb Landry Jones, abile nel condensare più personaggi in uno, nel dargli spessore ad ogni cambio d’abito, facendo di Douglas un trasformista, un soggetto plasmabile che rinasce, cambia pelle e direzione ad ogni ferita, ci troviamo di fronte ad un film che in un certo senso segna la rinascita del suo autore, se non altro presso il pubblico, che in sala pare aver molto apprezzato.
Si tratta infatti di un’opera carica di positività, dark solo in superficie o per via di alcune atmosfere e immaginari di riferimento. Potremmo dire che Besson “lecca le ferite” del suo protagonista, come fanno i cani più volte lungo la storia, abbracciando una visione compassionevole, mostrandoci nel contempo la forza interiore e il carisma di un uomo che continua a guardare avanti, a scegliere la vita, nonostante alle spalle abbia un bambino fragile e diverso, nonostante nel suo cuore alberghino la sconfitta e lo sconforto, ma non la solitudine, perché come recita la citazione iniziale “Dove c’è qualcuno infelice, Dio manda un cane”. Parabola cristologica, popolare per vocazione, come dimostra il finale con quella risurrezione immaginifica dalla croce come ombra, illusione proiettata sul sagrato della chiesa, sulla quale si staglia il corpo di Douglas illuminato da sole.