Della strada il cinema americano ha fatto una metafora. Dall’espansione all’evasione, dalla fondazione alla ricerca di sé stessi, non possiamo dire che la sua mitologia non abbia lasciato un’impronta nella nostra memoria di celluloide. Una traccia così profonda da farci dimenticare spesso che il viaggio è trasformazione, non illusione. Eppure dalla beat generation in avanti quel vagare senza meta ha rappresentato per tutta la cultura occidentale non solo il tentativo di rigetto di una società di cui si disconoscono i valori, ma sempre più un falso movimento, che rende impraticabile ogni allontanamento. Sorvolando l’oceano e approdando nel vecchio continente, ci domandiamo se l’errare di EO, l’asinello protagonista dell’ultima fatica di Jerzy Skolimowski, non sia del tutto vano. Se la vanità, nell’accezione latina “vanitas vanitatum et omnia vanitas”, non sia riconducibile a quell’infinita vanità del tutto leopardiana, che ci obbliga a reinterpretare in senso nichilista il passaggio de L’Ecclesiaste. Ha forse una meta EO? No. Uno scopo di salvezza? No. Il mondo cambia al suo passaggio? No. Da questa piccola odissea esce beatificato? No. Non si tratta infatti di una parabola cristologica, EO non torna a noi in un’altra forma, se non in quella dell’opera digitale, fendendo per sempre la nostra memoria di celluloide e trasformando quel “Amaro e noia / la vita, altro mai nulla; e fango è il mondo” (A se stesso, Giacomo Leopardi), sentire che fa capolino durante la visione del film, in quell’apatia e assenza di empatia dell’entità robotica che si manifesta come un monito, video-registrando il Tutto, il Mondo, la Natura, superficie definitiva sulla quale l’essere umano ha da sempre stampato la sua presenza, come arte, artificio, distacco dalla sua stessa naturalità. Strada, appunto.
Come un’ombra su EO, il film e il raglio (ih-ho), l’onomatopea che assegna un nome all’animale, si staglia Au hasard Balthazar, il capolavoro di Robert Bresson. Un tributo, un omaggio, una libera interpretazione? Noi preferiamo non sottrarre il film di Skolimowski alla sua essenza fantasmatica. È ombra del suo originale, come nella caverna platonica, perché la sua sostanza è di gran lunga più indecifrabile. Non solo per lo sperimentalismo – funambolico nel suo essere al contempo esperienza sensoriale, meraviglia cinematografica riproposta in chiave digitale e disturbo della visione, smarrita in quel rosso scarlatto e vibrante, che ci si domanda se sia o meno una forma di daltonismo, una alterazione della vista instillata nell’opera, come a suggerire l’incapacità dell’essere umano di percepire la Natura (quindi di conoscerla), a partire dal suo stesso colore, il verde, sostituito dal suo complementare, il rosso – ma per la sua capacità di rappresentare, nell’immaginazione infantile, qualcosa di immensamente più pauroso, pericoloso e indistinto. Lo sguardo dell’innocenza non è infatti solo quello di EO, antropomorfo talvolta al limite del disneyano (cortocircuito interessantissimo per un film arthouse, che dichiara immediatamente, e non solo con riferimento a questo particolare, la sua capacità di rievocare o rimasticare la cultura pop) ma quella dello spettatore che voglia compiere questo viaggio, per imparare nuovamente a sentire più che a capire.
Da Ombre Rosse a Easy Rider, solcare la wilderness è prima di tutto un’esperienza della wilderness, intesa come sgretolamento della civiltà, avamposto itinerante che penetrando progressivamente la Natura, mette i protagonisti a contatto con una “diluizione della cultura” o con un’umanità sempre più selvaggia, istintuale, irrazionale. Eppure Skolimowski in EO, che alla diligenza non sostituisce semplicemente la motocicletta, bensì trasforma il cavallo in asino, facendo del “mezzo di locomozione” il protagonista, per giunta “figlio di un dio minore”, ovvero privo della bellezza, maestosità ed eleganza del cavallo, non si limita ad affiancare incontri strampalati a situazioni paradossali che spesso costellano il road movie, ma attraverso il linguaggio, ben lontano dall’austerità del maestro francese (in Bresson l’asino è un asino), suggerisce una mutazione del rapporto Uomo-Natura. Se la Natura “naturale” muore per mano dell’essere umano, può essa risorgere tecnologicamente, non solo come immagine, ma come ibrido post-umano e post-naturale?