“Ricorda, è romantico come l’inferno, ciò che facciamo”. Così Ryan McGinley, descrive la sua fotografia. Nato nel New Jersey e trasferitosi nell’East Village alla fine degli Anni Novanta, è considerato tra i più influenti portavoce della nuova fotografia americana. La libertà, l’edonismo, l’energia delle sue rappresentazioni sono diventate il manifesto di una generazione, protesa verso la ricerca dell’innocenza e la manifestazione di una forte volontà espressiva. A poco più di vent’anni il Whitney Museum e il MoMA PS1, con due importantissime mostre, consacrano il suo lavoro: un racconto ‘ossessivo’, fresco e spontaneo della comunità underground del downtown di New York. L’abbiamo incontrato in occasione della sua prima personale italiana, alla GAMeC di Bergamo, curata da Stefano Raimondi.
The Four Seasons, percorre dieci anni di lavoro del McGinley più romantico, dedito all’esplorazione del paesaggio americano. Con più di quaranta fotografie disposte in cinque sale e suddivise seguendo il ritmo delle quattro stagioni, ci siamo lasciati trascinare alla ricerca del ‘buon selvaggio’, tra landscape scultorei, accesi pattern cromatici, glaciali nevi invernali e corpi nudi immersi nella Natura.
V: The Four Seasons è la tua prima mostra in Italia ed è percorsa da un forte ed evidente sentimento romantico. C’è qualche relazione tra il romanticismo delle tue fotografie, la cultura europea e il paesaggio italiano, considerato che ci viene prospettato un percorso espositivo melodico alla Vivaldi?
RMG: I miei lavori sono molto americani anche se da tempo dialogano con il romanticismo. Non posso dire che questo orientamento sia di matrice europea, allo stesso tempo penso che l’Europa sia più sensibile al concetto di bellezza, soprattutto quando si parla di paesaggio. Questo aspetto mi porta a pensare che qui, più che in America, il mio lavoro possa essere apprezzato maggiormente. L’Italia, in particolare, ha una storia culturale di grande respiro in tutte le arti, che su di me ha avuto un forte impatto. Mi sento completamente immerso nella cultura italiana e mi piace questa condizione.
V: Per più di dieci anni hai viaggiato per l’America alla ricerca di luoghi incontaminati, realizzando serie fotografiche che sembrano, da un lato, rievocare il “mito del buon selvaggio”, dall’altro, una sorta di paradiso perduto che appare anche come una fuga dalla società. Che cosa stavi cercando?
RMG: Senza dubbio la spiritualità della Natura. La transizione delle stagioni, il senso ciclico del cambiamento. Il mondo naturale rappresenta un perfetto escape dalla dimensione urbana, però la luce, la pace, la connessione con la terra, i colori puri e accesi sono stati per me un’occasione per realizzare una liberazione e per esprimere una sensibilità più pittorica.
V: La pittura quindi ha influenzato il tuo modo di rappresentare la realtà?
RMG: Assolutamente sì, soprattutto i pittori romantici come Caspar David Friedrich. Quando fotografo vado sempre alla ricerca di una palette pittorica nel paesaggio e presto molta attenzione alla composizione e al bilanciamento delle parti, esattamente come in un quadro.
V: Sei considerato uno dei fotografi più rappresentativi della generazione che dalla fine degli Anni Novanta è passata al nuovo millennio e hai saputo dare un nuovo volto al sogno e al paesaggio americano, prima di tutto urbano. Questa mostra traduce però un punto di vista più filosofico. Giusto?
RMG: L’America è un continente smisurato ed estremamente vario. Tutti quando la immaginano pensano alle grandi distanze, ma può cambiare drasticamente aspetto e umanità anche su quelle brevi. Io sono sempre stato ispirato dal suo immaginario ma non ho mai racchiuso le mie fotografie in sezioni o “filosofie” predefinite. In questa mostra ho cercato di esplorare i differenti mood delle stagioni, facendomi ispirare dal concetto di transizione, di morte e di rinascita che è presente in Natura, che è filosofico di per se stesso, e che mi rimanda sicuramente al Trascendentalismo.
V: Le tue fotografie parlano un linguaggio molto emozionale. Si tratta di una concettualizzazione, di una ricerca idealizzata dell’emozione o di qualcosa di ineffabile che desideri semplicemente catturare?
RMG: Direi un po’ di tutte queste cose insieme. Quando siamo sul set lavoriamo moltissimo per ricreare un’atmosfera fresca e genuina. Ricorriamo alla musica, alla coreografia, per fare in modo che i modelli si sentano a loro agio. Molti dei momenti magici che sono presenti all’interno delle mie fotografie sono assolutamente spontanei.
V: La tua estetica e il tuo stile hanno avuto un impatto significativo su molti fotografi e filmmakers sia in America che in Europa. Chi consideri invece il tuo ‘maestro’?
RMG: Sono cresciuto con Easy Rider di Dennis Hopper e American Pictures, il meraviglioso libro fotografico di Jacob Holdt. Da un punto di vista cinematografico e di modalità di racconto, molto libera, devo ammettere che l’ineguagliabile stile di Terrence Malick è stata la mia più grande ispirazione.
V: Mi è sempre piaciuto molto il tuo punto di vista “diaristico” nella fotografia, perchè è esattamente assimilabile a quello di un antropologo. È così?
RMG: La sensibilità antropologica che pervade le mie fotografie è semplicemente il ritratto della comunità che abita il downtown di New York. Molte di queste persone sono giovani artisti e liberi pensatori, con alle spalle vite e storie molto diverse, che hanno scelto di vivere la città con un’intensa voglia di esprimersi.
V: Sin dall’inizio il viaggio è stato molto presente nella tua fotografia, ma non nella direzione della street photography, cioè di un movimento quasi ed esclusivamente urbano. C’è molto della Beat Generation nel tuo immaginario.
RMG: Ho letto per la prima volta On the Road di Jack Kerouac alle superiori ed mi ha influenzato moltissimo, soprattutto questa idea di muoversi insieme a persone che sono nel tuo stesso viaggio, mentale prima di tutto. Per quanto riguarda la street photography non ha mai fatto parte delle mie ispirazioni, l’idea dell’attesa per cogliere il “momento decisivo” mi è completamente estranea. Il mio modo di fotografare è quello di chi sta dentro a un’esperienza, non fuori. Le mie fotografie non parlano della realtà, incorporano un aspetto più fantastico. Sono più degli pseudo-documentari, che sicuramente devono molto allo spirito libero e creativo della Beat Generation.
V: Hai mai pensato di fare qualcosa di completamente nuovo, anche molto lontano dal tuo stile e dalla tua poetica?
RMG: Cerco sempre di fare qualcosa di artisticamente diverso. Quando ho cominciato a fotografare sono partito dal desiderio di dare un volto al downtown di New York, che corrispondesse alla mia generazione. Poco tempo dopo ho cominciato con i miei viaggi fotografici, che prevedevano situazioni completamente nuove: le cave, gli animali, le condizioni estreme del tempo atmosferico. Poi ci sono i ritratti in studio, come la serie Yearbook, a cui ho lavorato negli ultimi sette anni. Tutti questi progetti possono essere considerati delle variazioni rispetto allo stile e alla poetica delle mie fotografie. Allo stesso tempo credo dimostrino la mia costante irrequietezza e il bisogno di provare sempre cose nuove.
V: Le tue fotografie esplorano esclusivamente l’immaginario americano. Non ti piacerebbe conoscere e raffigurare altre parti del mondo?
RMG: Da un punto di vista fotografico, onestamente no. L’America è immensa e ho ancora tantissimo da esplorare. Dopo dieci anni di viaggi da una parte all’altra del suo territorio, penso di aver visto a malapena la punta di un icerberg. Sono un’artista profondamente americano, nel senso che mi interessa esplorare i luoghi e gli immaginari che fanno parte della mia cultura. Per me è fondamentale utilizzare i paesaggi americani come fondale delle mie fotografie. Inoltre non mi stancherò mai di ripeterlo: una delle cose più belle del viaggiare in America è che “tutte le strade portano a casa, tutte le strade portano a Mary Jane (mia madre)”.
Intervista pubblicata su Dailybest.
Ryan McGinley, The Four Seasons
a cura di Stefano Raimondi
18 febbraio – 15 maggio 2016
gamec.it