La diffusione della cultura pop giapponese, dalla moda alla musica, dal design all’architettura, è un fenomeno che sta interessando tutto l’Occidente, europeo e americano, da diversi anni. Si tratta di nuovi flussi e geografie culturali che promuovono una nuova visione del Giappone, nella versione del techno-orientalismo, inaugurata dalla generazione giovanile degli Anni Novanta, definita dai media americani GenerAsianX; che sotto l’influenza della modernizzazione, della cultura del consumo e dei nuovi panorami mediatici diffusi da manga, anime, videogiochi e telefilm, rivendica la propria identità culturale in maniera atipica, rompendo con la tradizione e ribaltando modelli e stereotipi eterodefiniti. Ne sono prova gli otaku, nome dato in Giappone ai giovani immersi nell’universo mediatico e virtuale, impegnati nelle pratiche del cosplay, di cui si è occupata anche Wired, storica rivista della cybercultura, nell’ormai lontano 1993, presentandoli in copertina come una sorta di nuova razza umana prodotta artificialmente da tecnologia e postmodernità.
Gli otaku sono l’emblema del cambiamento, dell’ibridazione e della crisi del processo di modernizzazione occidentale, che porta alla formazione di una cultura alternativa infantile, regressiva, che non si riconosce più nel patriarcato della società giapponese e nella sua educazione restrittiva e chiusa, bensì nei mondi caldi, colorati, morbidi, fantastici e altri, dei Pokemon, di Hello Kitty, di Doraemon. Che da luoghi della fuga si trasformano in un nuovo paradigma esistenziale ed estetico, dando vita all’universo onomatopeico del cariino (kawaii), col suo stile ispirato alle caramelle, alle bambole, ai pupazzetti di lana, agli animaletti di peluche, ai fumetti e più in generale alla dolcezza, alle coccole e alla seduzione della debolezza. Ciò che però più affascina e spaventa la società, a proposito di questo nuovo trend, è il processo di femminilizzazione della cultura maschile, che ha come riscontro sociale l’abbandono degli spazi della strada, il confinamento nel silenzio della propria stanza e il feticismo per l’immaginario femminile che porta i giovani teenager a vestirsi come le loro sorelle. Innescando un processo che confonde ruoli e generi, recuperando l’immaginario della Shojo, la donna-bambino, che più che una realtà in carne e ossa si configura come un corpo fluido e metamorfico sospeso tra l’infanzia e la società adulta, la consapevolezza e l’innocenza, la mascolinità e la femminilità.
Le rappresentazioni di questo corpo creano una vera e propria scena, internazionalmente diffusa e contaminata, costituita da sorrisi, desideri, narcisismo e consumo, che a partire dal 1998 invade in maniera massiccia le strade di alcuni quartieri di Tokyo, tra cui quello di Harajuku, prediletto dagli adolescenti metropolitani che si vestono e travestono per esprimere se stessi e dichiarare la loro nuova identità interstiziale. Prendono vestiti da mercatini, negozi dell’usato, grandi magazzini e talvolta negozi di lusso (che possono permettersi solo prostituendosi, atteggiamento piuttosto diffuso tra le giovani generazioni disincantate e consumiste), abbinandoli a capelli tinti con nuance fluorescenti e a accessori gommosi e colorati, molto spesso rubati ai fratelli minori. Facendo dello street fashion la creazione, tramite la combinazione di svariati elementi vestimentari – prelevati da epoche remote e future, da stili e culture differenti, da cinema, letteratura, musica, videoclip, fumetti -, di uno stile volto a esprimere i pensieri, il sentire e gli interessi di chi lo indossa; capace di trasformare il corpo in luogo di comunicazione e dispositivo di variazione e vibrazione delle differenze. Spazio aperto, in cui assemblaggio, montaggio, giustapposizione, cut-up, incroci, innesti, dialoghi a distanza e citazioni definiscono, in base a una logica sperimentale, un’estetica della selettività e della libertà.
Saggio tratto da Extended Mind. Viaggio, comunicazione, moda, città, a cura di Carlotta Petracci, anno 2006.