C’è ancora così tanto futuro, nel “suono del futuro”. E così tanta nostalgia in quella biografia, messa in musica dai Daft Punk. L’orecchio è un groviglio di memorie, un impianto digitale. È un viaggio attraverso una voce calda di Youtube, che racconta di sonni randagi in automobile, fuori dalla discoteca. Chi l’avrebbe mai detto che quel ragazzo sarebbe diventato Giorgio Moroder? Alle Officine Grandi Riparazioni di Torino, in occasione del Big Bang, l’esperienza è vorticosa. È come aprire una porta dentro una porta, dentro un’altra porta. Il fucsia lunare di Tutto Futuro, di Patrick Tuttofuoco richiama la pastosità onirica dell’arancio di Cat People. Come nel film Il bacio della pantera, Giorgio diventa Irena, assecondando musicalmente il suo smarrimento. E noi con lui, mentre ci addentriamo nel ventre buio delle Officine, attratti come falene da un bagliore giallo-rosso lontano.
Sul palco la metamorfosi continua, la voce disincarnata di Donna Summer assume le sembianze di Shingai Shoniwa (vocalist e bassista della band britannica indie rock Noisettes) e Hayden Thorpe dei Wild Beasts presta la sua alle colonne sonore del cinema, entrambi accompagnati da un coro e dall’Ensemble Symphony Orchestra, mentre eseguono i grandi successi pop del primo vero compositore elettronico della storia della musica. Lui esce più volte da dietro le quinte: disinvolto, ciarliero, a suo modo uomo di spettacolo, mentre Shingai salta, balla, fa addirittura capriole, tanta è l’energia del momento. L’ultimo brano è quasi un invito al silenzio, all’ascolto di una storia accorata e narrata esclusivamente dai sintetizzatori. La storia di un sogno, di un ragazzo che voleva fare il musicista, il compositore, e che è diventato realtà: “Il mio nome è Giovanni Giorgio, ma tutti mi chiamano semplicemente Giorgio”.
V: Dopo quarant’anni e tanti successi, il suo modo di lavorare è sempre lo stesso?
GM: Direi di no, perché produrre musica oggi è molto diverso. Con Donna Summer ci chiudevamo in studio per mesi. Adesso invece il processo si è frammentato, si lavora a distanza. Kylie Minogue, per esempio, non l’ho mai incontrata. Le ho inviato la base, ci ha cantato sopra, mi hanno rimandato il pezzo, l’ho sistemato, ce lo siamo scambiati, ma la partecipazione emotiva e il coinvolgimento che c’erano prima sono venuti meno. Ci sono troppe figure di intermediazione e non si instaura una relazione creativa diretta.
V: Che musica ascolta? Altri generi rispetto all’elettronica?
GM: Non ne ascolto molta. Lavorando in studio tutto il giorno, nel tempo libero ho bisogno di decompressione e di silenzio. A casa non ho neppure l’impianto stereo. In Europa attraverso i Daft Punk ho avuto modo di conoscere meglio quel contesto, ma non seguo le scene underground. Non sono al corrente di quello che sta succedendo in Italia. Presto più attenzione al pop, soprattutto quello americano che passa in radio. Recentemente Justin Bieber mi è piaciuto molto.
V: È famoso per colonne sonore o pezzi iconici nel cinema, da Midnight Express a Scarface, da American Gigolò a Flashdance, da Top Gun a Cat People. Ha mai lavorato per la televisione?
GM: Sto facendo la colonna sonora di una serie: The Queen of the South. È al secondo anno in America. A breve cominceremo a lavorare sulla terza stagione.
V: Nell’ambito dei videogame aveva fatto la colonna sonora di quello della Disney Tron. Come considera tale esperienza rispetto al cinema?
GM: La colonna sonora di un videogame è un lavoro diverso rispetto a un film. Si tratta di fare poche decine di secondi, con degli andamenti variabili, a volte accelerati altri drammatici, ma non è necessario neanche guardare le immagini. Quindi direi che non è ugualmente stimolante.
V: La musica è stata investita dal fenomeno dei talent show. Il pop ne ha davvero bisogno?
GM: Oggi lanciare un cantante è molto difficile e costoso. I talent show servono perché le vendite non sono più quelle di una volta e la parte di promozione incide enormemente nell’ascesa di un nuovo volto. Il successo, soprattutto nel pop, è frutto di una pianificazione molto strategica. Le etichette discografiche però credo facciano un errore, puntando esclusivamente sui vincitori e lasciando in ombra gli altri.
V: Com’è nato l’immaginario sexy di Donna Summer?
GM: Senza alcuna intenzionalità. Nel senso che non è stato costruito a tavolino come le Spice Girls. Quando abbiamo registrato con Pete Bellotte Love to Love You Baby, abbiamo avuto l’intuizione di lavorare sulla voce in maniera sensuale, richiamando l’orgasmo femminile. Quest’idea ha reso il pezzo sexy e automaticamente lo è diventata anche lei. Ma non c’è stata premeditazione, al contrario, inizialmente, quando lo facevo ascoltare, ero un po’ imbarazzato, perché non sapevo come sarebbe stato recepito. Era tutto nuovo.
V: Vede una nuova Donna Summer all’orizzonte?
GM: È difficile immaginarne un’altra. Se esistesse dovrebbe avere tra i sedici e i diciotto anni e non essere semplicemente una cantante. Non basta più. Oggi bisogna sapere ballare, recitare, suonare uno o più strumenti. Non è un caso che i grandi cantanti pop provengano tutti dalla Disney. Ci vuole molta più preparazione artistica che in passato, perché la concorrenza è spietata.
V: Con chi le piacerebbe collaborare oggi?
GM: Sicuramente con Lady Gaga, che è bravissima, oppure Rihanna. Alcuni anni fa stavo per cominciare una collaborazione con Beyoncé, per un pezzo per le Olimpiadi di Pechino, ma l’occasione è sfumata.
V: Col tempo è tornato a fare anche il dj. È tutto come all’inizio?
GM: Fare il dj non è semplice. Dieci o quindici anni fa bastava mettere su dei dischi e mixarli, oggi è un’attività che si è trasformata in spettacolo, bisogna orchestrare la parte visiva con i video, le coreografie, le luci. Inoltre la tecnica è diventata un elemento essenziale. Dj veramente bravi come David Guetta o Tiësto sono tecnicamente incredibili.
V: Il suo pubblico è molto eterogeneo, soprattutto a livello di età. Come riesce a farlo ballare?
GM: Presto molta attenzione al contatto. Il pubblico bisogna sentirlo, coinvolgerlo, non perderlo mai. È importante osservarlo, per capire come reagisce. Occorre essere flessibili, adattabili e rispondere di conseguenza.
Intervista pubblicata su Artribune.