A cura di Francesco Zanot, inaugura alla Fondazione Prada Osservatorio. Un nuovo spazio espositivo dedicato alla fotografia e ai linguaggi visivi, all’esplorazione delle tendenze del contemporaneo e alle loro implicazioni sociali e culturali, all’interno del flusso globale della comunicazione.
È stata una sorpresa. L’immediata risoluzione di un interrogativo: quale ruolo spetta alla fotografia nell’era digitale? Sono anni che cerco di ricostruire il puzzle di quello che sta accadendo alla cultura visiva, attraversata da innumerevoli tendenze, emersioni e sconfinamenti disciplinari. Sono anni che cerco e guardo immagini. Lavoro, piacere? Chi può invocare questa distinzione. Da quando c’è Instagram non conosco più il confine tra vita personale e collettiva, intimità, messinscena, scouting, intrattenimento e morbosa curiosità. È come se il diario di quand’ero adolescente fosse diventato una condizione esistenziale e comunicativa ineludibile. Un pensiero, un autoritratto, un oggetto ritrovato, un’immagine ribloggata, un progetto, un articolo, un viaggio. I social network sono lo specchio del XXI secolo, il quadro di Dorian Gray tanto quanto il lago di Narciso. La fotografia come linguaggio, come medium votato alla rappresentazione e alla documentazione, da più di un secolo ha cambiato pelle, è uscita dagli studi fotografici per entrare prima nelle abitazioni, esaltando l’aspetto vernacolare degli album di famiglia, e successivamente nella vita quotidiana, come un’ombra, attraverso la tecnologia. La nostra identità si è frammentata nella miriade di immagini che ci ritraggono, entrando a far parte di un diario condiviso costantemente in fieri. Controllo e autocontrollo, autenticità e finzione, sono due facce della stessa medaglia. Che cos’è vero, verosimile, credibile, accettabile? Proprio ieri sera dal mio account di Instagram è stata rimossa una fotografia di Leigh Ledare esposta alla Fondazione Prada Osservatorio, nella mostra Give Me Yesterday curata da Francesco Zanot. Aveva violato le policy del mezzo ed è stata censurata. Come può una fotografia inclusa in una mostra essere rimossa da un account personale? La ragione è semplice: la fotografia, quella vera, ha ancora la capacità di scandalizzare. Seguendo la strada tracciata da grandi autori come Nan Goldin e Larry Clark, Leigh Ledare in otto anni ha dato forma ad un progetto fotografico che mette in crisi tabù e moralità, legati al concetto di famiglia.
La sessualità esibita, trasgressiva, intima della madre, indagata dallo sguardo del figlio restituisce una visione della maternità e della loro relazione a tratti ludica e disturbante. Pudore e perfomance, pubblico e privato si incontrano e confondono, come nelle nostre vite in rete. È questo il nucleo della riflessione che Francesco Zanot sviluppa attraverso un percorso che comprende più di 50 lavori di 14 autori italiani e internazionali, che hanno esplorato la fotografia nella direzione del “diario personale” dall’inizio degli Anni Duemila a oggi. Istantaneità e posa, catalogazione e espressione, spontaneità e ricercatezza costruita, sono i dualismi che accomunano, pur nella diversità, i progetti fotografici in mostra. È il caso di Izumi Miyazaki, con i suoi selfies e “contro-selfies”, e la sua notorietà dovuta a Tumblr. Le sue fotografie sono una ricostruzione surreale di un immaginario alla Amélie Poulain in salsa giapponese, dove fantasia e solitudine si incontrano, dando luogo a innumerevoli peripezie visive ed emotive. Assurdità, humor, delicatezza e tanta incredulità catapultate in scenari suburbani e registrate col realismo e la sensibilità della street photography, contribuiscono a rendere i suoi autoritratti ancora più stranianti. Izumi gioca col suo aspetto, con la sua presenza-assenza, con tutto quel corredo di oggetti e nonsense che attribuiamo alla cultura giapponese, ma soprattutto innesca una riflessione scherzosa sull’attitudine wannabe della società contemporanea.
Più psichedelico e digitale è invece Kenta Cobayashi. Nelle sue immagini i pixel si sostituiscono alla grana, la post-produzione ad un certo aspetto pittorico della sua fotografia. Internet è al centro, perchè in Cobayashi assistiamo ad una vera e propria techno-illuminazione, dove la realtà esiste attraverso layer e si esprime con i colori accesi di Shibuya. La macchina fotografica dialoga con altri tools ed energie creative, lo sguardo curatoriale percorre le strade delle metropoli, segue le accelerazioni della rete e con esse scova progettualità che si distribuiscono da un angolo all’altro del pianeta. Lebohang Kganye vive a Johannesburg, in Sud Africa, conosce la storia dell’apartheid attraverso le esperienze della sua famiglia, e la sua fotografia racchiude e reitera un costante bisogno di ricongiungimento con le proprie radici. In “Her-story” inserisce digitalmente la sua figura all’interno di fotografie che ritraggono la madre, talvolta indossando anche gli stessi abiti. È un modo per ristabilire una connessione, per ritrovare una collocazione utilizzando il medium fotografico non tanto per registrare la realtà, ma per reinventarla.
Articolo pubblicato su Espoarte.
Give Me Yesterday
a cura di Francesco Zanot
21 dicembre 2016 – 12 marzo 2017
fondazioneprada.org