All’inizio fu una voce sintetizzata da un software, nella penombra di uno scantinato di periferia in una megalopoli escheriana. Così ci piace immaginarla. Poi è diventata la post-human pop star più famosa al mondo, quella creata dalla Crypton Future Media, una sorta di colosso dell’intrattenimento made in Sapporo. Dopo aver aperto l’Art Rave Show di Lady Gaga, aver collaborato con Pharrel Williams ed essere stata ospitata al David Letterman Show, nel 2016 ha annunciato il suo primo tour negli Stati Uniti. Ma prima ha fatto tappa in Europa, a Berlino, dove è stata la protagonista di una decostruzione immaginifica. In Still Be Here, la performance collaborativa commissionata da Transmediale e CTM alla conceptual artist Mari Matsutoya, in collaborazione la producer Laurel Halo, il coreografo Darren Johnston, la virtual artist LaTurbo Avedon e il digital artist Martin Sulzer, abbiamo visto Hatsune Miku in una chiave completamente nuova: non una virtual idol da mass market ma una sedicenne dai capelli acquamarina alla ricerca della sua identità.
Non è più una questione di King Kong contro Godzilla, se in questa contrapposizione vogliamo leggere tutta l’eredità dei traumi e delle paure post-atomiche incarnate in mostri, robot e fashion icon da parte della subcultura otaku. La spartizione dell’immaginario popolare è diventata da tempo un’inarrestabile processo di infiltrazione. Già Roland Kelts in Japanamerica. How Japanese Pop Culture Has Invaded the U.S. ci raccontava di come questa collisione si fosse rapidamente trasformata in entusiasmo. Del resto, ve la ricordate la copertina dell’album di debutto in Hyperdub di Laurel Halo Quarantine? Sangue, katane e collegiali. Un classico manga action-splatter.
https://www.youtube.com/watch?v=L0DUUH9bjcM
Se una musicista sperimentale come Laurel Halo sceglie di far corrispondere al suo suono, assolutamente inafferrabile, un’immagine così popolare e culturalmente distante, significa che qualcosa è cambiato. La storia di Hatsune Miku, parte anche da qui, dalle nuove geografie del nuovo millennio. Letteratura, cinema, televisione, web hanno riportato al centro della Storia lo spostamento come principio creativo per immaginare il presente e il futuro. Così ci chiediamo: di chi è la paternità di Hatsune Miku, la virtual pop singer più famosa al mondo? Della Crypton Future Media, la compagnia giapponese che l’ha inventata o di William Gibson, che in Idoru, di fatto l’ha teorizzata sotto le spoglie di Rei Toei? Diciamo, palla al centro per l’Europa. Il calcio d’inizio non è avvenuto né da una parte né dall’altra, bensì dal vecchio continente e dalla fascinazione provata dai giapponesi per un’altra infiltrazione culturale: la voce di Sylvie Vartan nel film franco-italiano del 1964 Cherchez l’idole. Una voce quindi, non un’immagine, sarebbe responsabile dell’inizio della mitologia dei japanese idols.
Ma ne siamo proprio sicuri? Per capirlo dobbiamo volare nel Giappone più high-tech dove tutto ciò che è immateriale e impalpabile ha sempre una traduzione visiva e tangibile. Se Hatsune Miku, prima di chiamarsi così, era la numero due della serie Vocaloid2, con la voce di Saki Fujita, doppiatrice (più precisamente voice actress) di innumerevoli anime di successo, una sorta di Siri unita a GarageBand, successivamente è diventata la sedicenne dai capelli acquamarina che tutti conosciamo, per dare un volto e rendere più amichevole un prodotto pensato per il mass-market e per tutti i fan degli anime. Facendo un passo indietro, dobbiamo ricordare che il primo computer in grado di cantare, restituendoci un’interpretazione proto-Kraftwerk, è stato il Bell Labs’ IMB 704 e la canzone era Daisy Bell, che alcuni anni più tardi, ispirò nientemeno che l’autore Arthur C. Clarke nella stesura della scena topica di 2001: Odissea nello Spazio di Stanley Kubrick, in cui il computer HALL 9000 canta la stessa canzone durante la sua lenta disattivazione. In questo continuo transfert tra reale e immaginario si colloca “il futuro della musica pop”, visualizzato come un ologramma adolescente dall’identità partecipata e licenziata come Creative Commons. 100.000 canzoni in nove anni, 170.000 upload video su Youtube, un milione di artwork che la ritraggono, Hatsune Miku prefigura la modalità con cui la cultura digitale ha trasformato il concetto di pop stardom mettendo al centro i fan. Sono loro a scrivere, comporre, programmare la sua voce, e sono sempre loro ad usarla come avatar per farsi conoscere, com’è successo ai Supercell e ai Livetune.
https://www.youtube.com/watch?v=jhl5afLEKdo
Contemporaneamente produttori e consumatori di cultura popolare, i fan sono diventati a tutti gli effetti degli idols. Conoscono perfettamente la regia che sta dietro a questi fenomeni di massa: personaggi fresh, cutie, la cui vita viene orchestrata pubblicamente e adattata ad ogni tipologia di media: anime, manga, romanzi, videogame, e in virtù di questa consapevolezza, in una fase di totale democratizzazione della produzione e circolazione della musica, si mettono alla guida del loro Cavallo di Troia. Hatsune Miku rappresenta esattamente questo:un corpo aperto e commodificato, che può diventare il territorio della libertà di espressione di chiunque. Da qui parte la decostruzione della perfomance collaborativa a cui abbiamo assistito quest’anno a Transmediale. Laurel Halo che lavora a partire dal repertorio di Hatsune, restituendoci un live tutt’altro che pop, LaTurbo Avedon, essa stessa un avatar, che crea una scenografia digitale che ingloba quasi completamente il corpo esile della virtual diva e Mari Matsutoya, che fuori dai riflettori ci racconta della fascinazione per il Giappone high-tech che Miku rappresenta.
“Il suo corpo è una metafora del desiderio collettivo. – dice Mari – Le regole della licenza stabiliscono come deve essere utilizzato, ma ci sono modi anche per eluderle. In questa perfomance abbiamo provato a immaginare una strada alternativa, diversa da come normalmente Miku appare, partendo da un presupposto molto semplice: la voce ha una sua sacralità indipendente dalla presenza del corpo. La nostra decostruzione voleva esplorare da vicino il senso della sua identità a partire dall’immaterialità del suono e della voce, e di una messa in scena inconsueta per una star del pop”. Vedere Hatsune all’interno dell’auditorium dell’Haus der Kulturen der Welt, rispetto a un grande palco, l’ha resa estremamente vicina, con tutto il suo substrato di finzione: i movimenti poco agili, la superficie sulla quale era proiettata fin troppo visibile, la sua totale assenza di tridimensionalità, allo stesso tempo la sua presenza è stata un’esperienza incredibilmente reale. Forse per la prima volta, fuori da ogni film di fantascienza, abbiamo iniziato a immaginare il nostro mondo insieme alle macchine, pensando che ci può essere davvero qualcosa di diverso dal corpo che ci vive accanto.
Articolo pubblicato su Rockit.