Dopo X, Wheel, album di debutto su PAN di Bill Kouligas, apprezzato per la ricchezza e varietà delle influenze musicali e vera scoperta del 2022, Heith, producer milanese co-fondatore di Haunter Records, torna sulla medesima etichetta con The Liars Tell…, un ep più ambient dove si concentra maggiormente sulla voce. Continuando a sviluppare un’identità artistica dall’unicità rara, dove convergono due percorsi: quello elettronico e quello più legato alla musica suonata, della prima giovinezza. L’abbiamo incontrato per farci raccontare della sua visione escapista della musica e per delineare un quadro della sua produzione, che lo annovera, anche se recente in termini di release, tra i musicisti da tenere d’occhio e da cui ci si aspetta un’interessante crescita.
V: Quando ti sei avvicinato alla musica e qual è stato il tuo percorso?
H: Ho iniziato a suonare da bambino. Non per un motivo specifico, ma perché mia madre mi aveva iscritto a lezione di chitarra quando avevo sette anni. Quindi fino ai dieci-undici ho frequentato le lezioni. A undici anni insieme al mio vicino di casa ho iniziato ad andare in skate e mi sono avvicinato alla musica. Ricordo che andavo allo skatepark e guardavo le toppe dell’abbigliamento degli altri ragazzi, con i nomi delle band, poi correvo a casa e mi scaricavo gli album. Quindi diciamo che l’ho incontrata un po’ per caso ed è stata anche un’occasione per aprirsi ad altri mondi.
https://www.youtube.com/watch?v=e-ljRq-qZpM
V: Successivamente hai continuato a fare musica?
H: Non ho mai smesso, anche se le release le ho fatte uscire solo di recente. Nel 2013 ho fondato l’etichetta Haunter Records e ho fatto musica in vari modi. Però ho cominciato a mettere a fuoco che cosa mi interessasse fare più meno cinque o sei anni fa.
V: In X, Wheel infatti si avverte, per via della moltitudine di riferimenti, un passato musicale più longevo rispetto alla sua data di uscita.
H: In quell’album si sono incontrati due lati della mia personalità musicale, uno era quello della musica suonata e uno è quello che è venuto dopo, più o meno verso i quindici-sedici anni, quando ho iniziato a scaricarmi i software per fare musica e interessarmi all’elettronica. Ho studiato music production da autodidatta. A circa vent’anni volevo fare elettronica quasi dimenticandomi che in realtà il mio approccio aveva un’altra origine. Penso che a un certo punto ci sia stata una riappacificazione e sono riuscito a far convergere questi due percorsi differenti.
V: Con Haunter Records siete riusciti ad avere un forte impatto su Milano.
H: L’etichetta si è sviluppata molto insieme a Macao. È stata un’occasione per poter portare la musica che ci interessava in città. Mentre gli eventi erano un modo per creare una community a Milano. In cui magari era presente un pubblico ma mancavano le occasioni e un punto di ritrovo per persone interessate a quel tipo di musica.
V: Dopo aver ascoltato diverse release di Haunter Records mi sono accorta che esiste un percorso di ricerca e di selezione che riguarda tante influenze, che è come se avessero trovato una convergenza nel tuo primo album su PAN con un’identità molto forte. Quando è nato e come l’hai strutturato?
H: È interessante che tu abbia trovato una correlazione tra Haunter e il mio lavoro come Heith, è possibile che ci sia. Il mio gusto e la mia ricerca si riflettono probabilmente in entrambi i campi. X, Wheel non è nato da un’idea precisa. Ho iniziato a lavorarci nel 2019 prima della pandemia e quando è cominciata era quasi pronto, poi ci sono voluti due anni affinché uscisse. Ho un approccio alla musica che non è concettuale. Per me è come andare in terapia e riuscire a verbalizzare ciò che ho in testa, in questo caso mettendolo in musica. Non penso molto quando produco un brano, anzi è un lavoro che faccio più a ritroso, come nella scrittura automatica. Dentro c’è tutto ciò che mi influenza nella vita e nella ricerca di tutti i giorni, tanto quanto nella musica che ascolto. In questo caso, soprattutto sulla parte visiva, l’album si è sviluppato attraverso la collaborazione parallela che stavo portando avanti con l’artista Pietro Agostoni, con cui abbiamo sviluppato un alfabeto, ispirandoci ai linguaggi asemici.
V: I riferimenti sonori meno “comuni” che sono presenti nell’album, mi riferisco alla musica rituale, alla gamelan, da dove derivano? Da una fascinazione dovuta a un viaggio?
H: Nel 2017 ho fatto un viaggio in Indonesia e per caso ho conosciuto dei ragazzi dell’Università di musica tradizionale di Bandung (i Tarawangsawelas) e ho passato mesi con loro, partecipando anche a cerimonie. In Indonesia la cultura è animista ed è stata per me la prima volta in cui sono venuto in contatto con questo tipo di approccio. Che però è affine alla visione spirituale che ho della musica. Anzi credo sia stata la dimensione dell’escapismo ad avermi fatto appassionare da bambino. Era sicuramente una via di fuga. L’aspetto rituale della musica riguarda molto questa dimensione o comunque il contatto con qualcosa di più ineffabile, non per forza materiale. L’ingresso in un’altra realtà, la possibilità di immaginare altri mondi, rispetto a quello in cui si vive. Penso che in fondo anche per le band noise, grunge, o in qualsiasi cosa degli anni Novanta, l’escapismo fosse una questione importante. Per Kurt Cobain come per David Tibet, che magari manifestava un interesse più concreto e approfondito nella dimensione ritualistica della musica. Però non credo che alla fine ci fosse differenza, perché la musica ha una funzione che non è rappresentativa, quindi appunto ti consente di immaginare qualcosa che non esiste.
V: Quindi questo escape, questo viaggio di cui parli, è più diretto verso altre culture o verso l’inconscio?
H: Non saprei, credo che qualsiasi forma di espressione sia un modo per conoscere sé stessi. Il viaggio può andare dappertutto, è un modo per investigare anche senza avere un obiettivo preciso. Il semplice fare è un’occasione per entrare in contatto con qualcosa che sta nella mente ma che allo stesso tempo è ignoto. In generale mi interessa come viene costruita la realtà, ciò che viene percepito come reale, perché è legato ad una dimensione più cognitiva dell’essere umano.
V: La musica è anche un canale per scoprire altro?
H: È un un mezzo per raccontare delle storie. Ascoltare musica è sempre stato un punto di accesso, una porta che mi consentiva di vedere oltre. Un esempio banale, ascoltando i Sex Pistols ho conosciuto Vivienne Westwood, grazie ai Throbbing Gristle ho scoperto William Burroughs e così via…La musica è un po’ un emissario.
V: Stai parlando di altre conoscenze ed esperienze culturali con le quali sei venuto in contatto grazie alla musica?
H: Sì ma anche di storie. La musica ha la possibilità di inviare un messaggio, non solo attraverso le parole ma anche perché ha una capacità risonante. Di fronte alla musica non puoi non reagire, puoi chiudere gli occhi e lasciarti attraversare da quelle frequenze, ma il tuo corpo non può rimanere impassibile. Così come di fronte alle parole, che sono anch’esse frequenze e possono veicolare vibrazioni ed energie.
https://www.youtube.com/watch?v=IfyfJBJeoC8
V: X, Wheel è stato un disco sperimentale in tutti i sensi. Dove hai anche coinvolto altri musicisti. Una direzione che non hai abbandonato in The Liars Tell…, l’ultimo ep uscito su PAN.
H: È stato interessante per me lavorare a quel disco perché a un certo punto mi sono accorto che quando faccio musica posso uscire da me stesso e lavorare in funzione della musica. Quindi se un pezzo ha bisogno di una batteria di un certo tipo, credo sia giusto coinvolgere la persona che può suonarla nel modo migliore. Inoltre ho capito che non mi interessa molto fare musica da solo. Trovo più stimolante avere anche energie esterne. Un pezzo è come un figlio, a un certo punto devi fare ciò che serve a lui non a te.
V: The Liars Tell… è più ambient e si concentra maggiormente sulla voce. Perché hai scelto di intraprendere questa direzione?
H: È un processo che è venuto da sé andando in tour. Sul palco mi pareva servisse usare la voce e ho provato a farlo. Due dei pezzi di The Liars Tell… sono dei rework di quelli di X, Wheel, perché in tour abbiamo dovuto riarrangiarli, perché il primo album l’avevo prodotto io, mentre sul palco ci sarebbero stati altri musicisti, quindi dovevano avere il loro spazio. Inoltre dal vivo non puoi replicare ciò che viene fatto in studio, devi inventarti altre cose, per cui i pezzi dei live erano molto diversi rispetto all’album originario. Sul palco era necessario introdurre l’elemento narrativo della voce, per accentuare l’aspetto perfomativo. Mettere anche il corpo in una certa condizione, più di vulnerabilità, è stato stimolante.
V: Quando parli di vulnerabilità riguardo alla musica dal vivo a cosa ti riferisci?
H: All’utilizzo della propria presenza fisica e della sua relazione con ciò che lo circonda, in questo caso il palco o il pubblico. Nella musica elettronica si tende più a nascondersi. Non serve molto la dimensione corporea. A me interessa raccontare delle storie, quindi lavorare anche su degli aspetti più visivi. Perché per quanto possibile penso sia interessante continuare a fare degli spettacoli. Credo che la musica possa essere disruptive, che possa creare una sospensione della realtà, a tal punto che durante un concerto il coinvolgimento sensoriale può portare anche ad avere delle percezioni alterate.
V: Che cosa intendi quando affermi di utilizzare la voce come uno strumento?
H: I brani in cui utilizzo la voce, anche in The Liars Tell…, sono l’esito di un processo che è avvenuto al contrario. Mi sono accorto dopo che serviva la voce. Quindi è più come uno strumento che viene affiancato o aggiunto sopra. Non si trattava di una musica che doveva accompagnare una storia, composta sulle parole, bensì dell’opposto.
V: Le colonne sonore del cinema horror sono state una fonte di ispirazione?
H: Recentemente di meno. Però da bambino ero molto appassionato di film horror e delle loro musiche. Ricordo che quando cominciavano i programmi horror e scattava l’ora di andare a dormire, dalla mia camera ascoltavo le musiche di The X-Files o di Twin Peaks, e creavano una strana atmosfera nello spazio. Per me in un certo senso rappresentavano il suono del proibito e forse sono i miei primi ricordi musicali.
V: X, Wheel è un album che all’ascolto è capace di restituire degli scenari. Produrre musica per te è anche un processo visivo?
H: In quel disco sicuramente sì. Ora invece sto lavorando più sul songwriting, sul trasporre le mie formule nel formato della canzone. Il prossimo album avrà sicuramente degli arrangiamenti più orientati alla forma canzone, quindi saranno meno legati a delle immagini o a degli scenari cinematografici.
V: La tua identità artistica ha un carattere di unicità raro. Come nasce questa commistione di influenze e combinazione dell’elettronica con altre sonorità e generi?
H: È avvenuto in maniera naturale, quando ho fatto pace, come dicevo, con i due lati del mio percorso musicale, quello elettronico e quello precedente quando facevo parte di varie band. Mi piace utilizzare gli strumenti, tanto quanto produrre col computer. Confondere le idee su questo aspetto credo sia interessante. La realtà in cui viviamo è pervasa dalla finzione. Forse non interessa più a nessuno che qualcosa sia vero, che sia reale. Per me la musica del resto è sempre finzione, come uno spettacolo. È la rappresentazione di qualcosa di immaginario che diventa reale.