Come si esprimono la sorveglianza e la nostalgia nel 2015? C’è ancora bisogno delle protest songs? Abbiamo incontrato Holly Herndon a S/V/N/ prima dell’estate, insieme al compagno e artista Mat Dryhurst, per chiacchierare dei suoi suoni alieni.

V: Sei nata in Tennesse, ti sei trasferita a Berlino per immergerti nella sua techno culture e poi a San Francisco. Questo nomadismo ha avuto un impatto concreto sulla tua personalità e produzione musicale?

HH: Assolutamente sì. Questi luoghi fanno parte di me e mi hanno profondamente influenzata. Anzi, devo dire che sono sempre più nomade. Ho lasciato San Francisco da poco e viaggerò per alcuni mesi suonando in diverse città. Quest’estate sono stata a Barcellona e Milano, tornerò a Berlino e poi volerò a New York. Ho l’abitudine di registrare e mixare mentre sono in viaggio. Con Platform l’ho fatto spesso. Ho registrato la mia voce in camere d’albergo, in bagno o in altri spazi, architettonicamente differenti tra loro. Quest’approccio ha conferito all’album un linguaggio molto preciso.

V: Oltre ai luoghi, dentro alla tua musica c’è molto di personale, non solo come ispirazione. Mi riferisco ai suoni e ai rumori della tua vita online e offline. 

HH: Penso che la vita personale sia fondamentale per personalizzare la musica, soprattutto perché molti credono che il digitale sia freddo o meccanico. Noi componiamo ricorrendo ai suoni della nostra vita domestica. Ricordo un giorno: Mat ha aperto il frigorifero, sopra c’era un vaso, ha fatto un suono così strano. Ci stava benissimo nel pezzo. Però non si tratta solo della vita offline. Il laptop è un oggetto tutt’altro che distante, dentro ci siamo noi. Per questo abbiamo registrato anche molte conversazioni su Skype. Dove acquisiamo i suoni e come li trattiamo è una scelta estetica importante.

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V: Il vostro lavoro parte da un concept o da un flusso di emozioni?

HH: Dipende dal pezzo. Certe volte è impeto puro e il lavoro concettuale viene dopo. Altre, si parte da un’idea. Ma non condivido questa distinzione: emozionale versus razionale, le due cose sono molto interconnesse.

V: Platform, prima di essere un album è una piattaforma di sperimentazione, che ha coinvolto diverse persone, tra cui Metahaven. Com’è stato lavorare con loro?

HH: Con Metahaven si è creata subito un’alchimia. C’è un famoso slogan femminista che dice: “The personal is political”. Loro l’hanno ripreso ampliandone il significato, affermando: “The personal is geo-political”. Ci è piaciuto il loro ethos, la loro capacità di permeare il graphic design con un approccio politico e di ricerca.

MD: Non essere influenzati dalla cultura visiva credo sia una delle principali preoccupazioni di Metahaven. Molto del loro “brutto” design serve ad arrivare dritti al messaggio. Lavorare con loro è stato un continuo: “Guarda questo movimento di camera oppure leggi quest’articolo”. L’impegno visivo sull’album è stato circa il 50%. Sono stati un partner molto discorsivo.

V: C’è un’istanza comunicativa molto forte nelle vostre produzioni ma non è facile da interpretare. Credete che la musica abbia in sé la facoltà di raccontare?

HH: La musica può essere molto narrativa. Anzi, essendo più astratta può essere interpretata soggettivamente, dando la possibilità alle persone di immaginare proprie storie, eludendo un certo determinismo del racconto visivo.

MD: Penso che ci sia un rischio. Soprattutto quando si parla di politica in musica. C’è questa convinzione diffusa secondo cui la musica deve comunicare un messaggio smussato, lirico o diretto, per essere più comprensibile. Un esempio sono le protest songs. Oggi suonano un pò ingenue.

V: Si certamente, ma è ciò che le ha rese popolari.

HH: L’estetica della musica prende forma dalla scelta con cui vengono affrontati i temi del contemporaneo. Per esempio la sorveglianza o la privacy: noi abbiamo utilizzato la sorveglianza per creare una sound palette, non per cantarla. Ci siamo sforzati di trovare un’altra strada per esprimerla. I tempi e gli strumenti sono cambiati, non abbiamo bisogno di riciclare ciò che è già stato fatto.

V: È un punto di vista molto sperimentale e avanguardista. Però non è difficile mantenere la linea?

HH: Lavorando in studio capita di cadere in emotional trip, perchè comunicano concetti ed emozioni in maniera molto esplicita. Un certo vocal effect può significare lussuria o nostalgia. È importante però cercare nuovi modi nel 2015 per esprimere la nostalgia.

MD: Ciò che conta è la voglia di provare. È noioso fare un pezzo synth anni Ottanta sulla sorveglianza oggi. Credo che il miglior esempio di ciò che intendiamo sia Breathe, tratto dal nostro primo album Movement. È un pezzo molto astratto, che per Holly aveva riferimenti molto precisi ma le interpretazioni sono state infinite. Può essere considerato sensuale, soffocante, spaventoso. Le persone rispondono in maniera diversa agli stimoli e non occorre necessariamente fare come Beyoncè per comunicare le emozioni.

hollyherndon.com