La voce canta e incanta. È un enigma, la sessualità della parola. Il nostro timbro personale. La note bleue di Chopin quando ci innamoriamo. È memoria, perché racchiude la nostra storia e cambia col tempo. Potremmo dire che nella voce ci sono molte tracce dell’inconscio, in tutti i suoi errori, nelle esitazioni, nelle circonvoluzioni delle menzogne e quando è canto, non è solo informazione che viaggia nello spazio alla ricerca di un ascolto, ma è godimento cavo, femminile, perché vibra percorrendo tutto il corpo. Ma se questo corpo non esiste, non è carne, ma è metallo, elettronica, meccanica, magnetismo, che cosa si prova a cantare? Questa è la vera domanda che racchiude PROTO, l’ultimo album e progetto di Holly Herndon (Tennessee, 1980), realizzato con il contributo di altri cantanti e di un’intelligenza artificiale: Spawn, progettata insieme all’artista Matthew Dryhurst e alla programmatrice Jules LaPlace, a cui è stato insegnato il linguaggio sonoro degli esseri umani.
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Riconoscere, interpretare, rielaborare voci. Forse un giorno mettersi in cerca della propria. Domandarsi se una macchina possa sviluppare non solo la coscienza, ma l’inconscio, perché quella è la sede della nostra specificità, diversità, personalità. E della nostra voce. Queste domande sono emerse al primo sguardo e ascolto di Eternal, nel piacere di perdersi nell’oscurità delle labbra che si aprivano, nei suoni che emettevano, nei contorni dei volti e di ciò che li oltrepassava che si distorcevano, come nell’Urlo di Edvard Munch, e nelle parole di Holly. Se ci si addentra in questo viaggio, che a differenza di altri, mettendo al centro la voce è principalmente interiore, è bello anche pensare che quelle parole non siano del tutto sue. Che sia Spawn ad osservarci, per imparare a conoscere e riconoscere l’amore. E la sua assenza. Quest’universo, suggerito da una semplice traccia, prodotto di un’immaginazione che non teme confini, purtroppo è andato perduto durante il live alle Officine Grandi Riparazioni di Torino, in occasione di Club To Club. Perché non era il palco la destinazione più opportuna per quel tipo di performance, non era un’architettura industriale sventrata, non era una situazione frontale, distante e dispersiva. Non erano le luci abbaglianti, l’eccesso di spettacolo, che determinavano l’impossibilità di farsi raggiungere dall’emozione di quelle voci, persino difficili da udire.
Non era la commistione di linguaggi – sonoro, visivo, performativo – e temi, che avrebbero armonizzato diversamente al suolo, dove vale sempre la regola del fante: l’occhio che vive la battaglia non ha tempo di guardarla. Mentre, osservati in prospettiva, traducevano uno stucchevole tripudio di estro senza grazia. Forse una posizione frontale avrebbe aiutato, ma una performance sul palco, che rinuncia all’immersività della vicinanza, deve essere bella in ogni punto dello spazio. Bella come un conflitto, nel disordine. Molto più difficile da progettare dell’ordine. Quello che del passato spesso si dimentica, è che l’architettura, il contenitore intrattiene una relazione necessaria col contenuto. Di senso, prima di tutto. Ma quando si parla di musica, si tratta di una relazione matematica, esattamente come avveniva nelle Chiese. L’arte che si fa evento è destinata perciò a perdere la sua funzione: regalare quelle esperienze indimenticabili, che possono cambiare la vita delle persone.
Report pubblicato su Artribune.