Alla 74esima edizione del Festival di Locarno è stato presentato il nuovo film di Bonifacio Angius. La nostra recensione.
Che cosa portiamo con noi quando intraprendiamo la strada dell’abisso? Sappiamo dove stiamo andando mentre ci riuniamo per darci conforto e distrazione? Aleggia, non del tutto inatteso, uno spettro nel film I giganti di Bonifacio Angius, presentato alla 74esima edizione del Festival di Locarno. Lo percepiamo nella penombra di quel luogo senz’aria, una casa inghiottita da una valle, in cui sono trincerati cinque uomini (Stefano, Massimo, Andrea, Piero e Riccardo), diversi per età, ricerca del senso e traguardi nella vita. Mentre fuori se ne sta sorda una Sardegna assolata, luogo dell’immaginario e del ricordo, nell’aria madida dell’interno polveroso ognuno di loro si chiude progressivamente nel proprio isolamento. “Ci sono persone che dicono di fare una cosa e poi ne fanno un’altra” sussurra Stefano, il più innocente dei protagonisti, all’inizio del film. “Sono tutti così”. “Anch’io da bambino dicevo tante cose, ma poi ho capito che non le avrei mai fatte. Allora non ho più parlato”. Eppure nello stordimento dato dal famelico alternarsi di alcol, speed, crack, eroina e cocaina i silenzi latitano, gli attacchi verbali, i dialoghi stralunarti e le recriminazioni non mancano, i malconci desideri per donne e amori mai nati non si risparmiano, e anche la sete di vendetta, che si traduce nel ringhioso bisogno di lasciar macerare nel senso di colpa e nei rimorsi la donna che ha privato un padre di una figlia.
Angius racconta una storia che va molto al di là delle sue venature di genere, dell’impianto tragico e del suo finale, se non annunciato, intuibile. Porta sullo schermo una mascolinità che si sgretola ma non riesce (non può) a cambiare, che si dimena negli abiti che le sono propri, intrappolata, frustrata, disillusa. Allo stesso tempo, sotto questa superficie più sociologica, ci parla di un richiamo lontano. Se vivere porta con sé gioie, dolori, errori, sogni e cinismo (potremmo dire anche amore, ma per questo genere di uomini passa in secondo piano, in relazione ad una concezione piuttosto tradizionale del rapporto tra i sessi, che forse è dell’autore stesso), ciò che ricacciamo costantemente nel profondo è il desiderio di liberarci di questa vita, dei suoi successi e fallimenti, della ricchezza e della precarietà, degli obblighi e dei deragliamenti, delle persone stesse. Non è un caso che le uniche due donne a cui viene concesso di entrare nella casa non rimangano a lungo, rappresentando due forze e presenze estranee a quella ritualità che, scena dopo scena, con i suoi eccessi, prende forma come un affare tra uomini. Un regolamento di conti tra compagni e con sé stessi. Ma anche una situazione in cui essere sé stessi, nella propria terra e poter esprimere quella rude gamma di emozioni che vanno dalla rabbia al pianto disperato, dalla commiserazione al disprezzo, senza per questo sentirsi giudicati.
Fuori da ogni psicologismo è una certa teatralità a dominare le azioni, accompagnata da un utilizzo atmosferico della musica, che fanno sembrare il cinema di Angius un po’ d’altri tempi, rispetto a ciò a cui siamo abituati. È piuttosto una filosofia “bassa” a permeare i discorsi, trascinata, quasi claudicante, nel presente (il nostro) di una società che l’ha da tempo destituita della sua centralità (la filosofia in generale) nell’analisi e sistematizzazione della condotta dell’essere umano, preferendo altre discipline più soft, dall’antropologia alla sociologia, o più orientate alla scoperta del profondo, come la psicoanalisi. Tolte queste considerazioni a margine resta il fatto che I giganti sono uomini comuni, profondamente imperfetti, il cui vissuto viene amplificato dalla costrizione dell’ambiente, da quella casa-gabbia che da luogo fisico per lo spettatore diventa nonluogo mentale, schermo, su cui proiettare le angosce dell’esistenza, l’inesprimibile che, una volta sguinzagliato, assume le sembianze del delirio psicotico, del sonno senza sogno, dell’asfissia paralizzante, del colpo rivolto verso la propria solitudine.