La soggettività postmoderna non riconosce più il principio di autorità: è aperta, poliedrica, cangiante e connessa a una molteplicità di scene esse stesse ibride. Sentendo le vibrazioni delle differenze, incrocia idee, culture, stili di vita, linguaggi e lavora in maniera intelligente sui dress code, che da rassicuranti dispositivi dell’identificazione sociale si trasformano in un’opportunità per ogni sorta di variazione reale o immaginata. A fondamento di queste nuove pratiche sta la consapevolezza che la cultura vada pensata non come una sostanza ma come un costrutto artificiale, inventivo, come una rete di significati: matrice generatrice di codici che possono essere riscritti e disseminati, per cui l’identità culturale diviene una questione di scelta, negoziazione, gusto e tattica politica, del singolo e delle comunità. Ciò implica una nuova cultura della visione, in cui conta la percezione: la capacità di vedere e immaginare oltre gli habitus, i confini, le certezze, di viaggiare dentro e fuori dell’oggetto della ricerca e della propria cultura di appartenenza. L’osservazione osservante, celebre formula dell’antropologia, diviene la modalità attraverso cui operare sconfinamenti e dislocazioni fisiche e cognitive, e la modernità etnografica la prassi attraverso la quale trasformare le differenze in qualcosa di opaco e vischioso, abbandonando le riposanti rappresentazioni dell’Altro e del lontano.
Nelle metropoli contemporanee le differenze si incontrano caricandosi di un’importanza data dalla contingenza e dalla dimensione relazionale. Sono motori per l’azione, questioni di potere e di retorica, e favoriscono il cambiamento della modernità. Sono i japo-negro, ragazzi giapponesi che si sono trasferiti nell’East Village di New York, che prendono lezioni di capoeira, cantano canzoni brasiliane, portano i capelli rasta e indossano sneaker coloratissime; le performance identitarie di Mariko Mori; l’etno-morphing di Hussein Chalayan nella collezione Ambimorphous, a cavallo tra tradizione e avanguardia; l’etnico mutante su corpi drag di John Galliano; lo street style giapponese; la Sape africana; i new dandy londinesi, come Yinka Shonibare; l’impuri bindi, polemica contro lo sfruttamento glam e commerciale, perpetrato dalle icone della musica pop internazionale, di simbologie culturali e tradizionali; le Yamamba, adolescenti delle strade di Tokyo, degne eredi delle streghe di montagna dell’immaginario popolare nipponico; il Krump del documentario Rize di David LaChapelle, danza urbana e acrobatica praticata in alcuni ghetti di Los Angeles, che ricrea coreograficamente il pestaggio subito da Rodney King il 3 marzo del 1991, ad opera di alcuni agenti del Los Angeles Police Department (Kult, n.12, 2005/2006); gli autoritratti di Samuel Fosso, originario del Camerun, in cui appare nudo o vestito con costumi settecenteschi o tipici della sua tribù, gli Ibo, con lo scopo di commentare il significato e il ruolo della mascolinità, del genere, dell’identità, della sessualità nell’Africa postcoloniale (Kult, n.13, 2006).
Sono transiti di desideri, lampi di associazioni e nuove identità autoprodotte, incrociando immaginari tradizionali e moderni, seriali, artificiali, personali. La strada è il luogo dove si incontrano, dove si realizza la comunicazione viva e alle differenze è data la possibilità di costruirsi sul piano dell’estetica, dove gli stili proliferano e sono imprendibili, perché non nascono più dal bisogno di comunità che la prima modernità aveva stimolato, come nel caso delle sottoculture: hipster, teddy boy, mod, punk. Gli stili ora sono giochi sofisticati, slittamenti di senso su corpi di soggetti moltiplicati e liberati. Prima di questa condizione di estrema libertà della tarda modernità, altre fasi hanno segnato la vita dei dress code e le loro modalità operative all’interno del tessuto sociale. Tre sono le matrici a cui possiamo fare riferimento per spiegare la fenomenologia del loro utilizzo lungo la modernità: la corte, la città moderna e la metropoli immateriale. La corte si qualifica come un tipo di organizzazione sociale basata sull’accentramento del potere nelle mani di un sovrano. È una società regolata gerarchicamente in tutte le sue manifestazioni, in cui una precisa scala di grado mantiene legate le persone e una rigida etichetta ne disciplina i comportamenti. Ciò la rende un corpo organico e interdipendente, dove pubblico e privato non sono ancora distinti e tutto deve essere manifesto. Il senso sta nella rete delle interdipendenze. Nessuno spazio viene lasciato alla libertà personale, a tal punto che la rappresentazione del sé non può in alcun modo deviare da come la società l’ha stabilita, attraverso il suo sistema della visione.
È assolutamente obbligatorio rispettare la propria posizione all’interno dell’equilibrio del potere e del rango, che legge nel lusso il suo codice espressivo. Il compito del dress code all’interno della corte è quello di rappresentare sfarzo, teatralità, presenza totale del personaggio, con tutta la sua rete di obblighi sociali e giochi competitivi, espletati sempre all’interno della propria posizione. Con la nascita della borghesia si compie la crisi di questo sistema e si apre una nuova fase della modernità, in cui denaro e professione divengono i fondamenti di un’esistenza mobile, che si sottrae ai vincoli del rango. La vita professionale è il fulcro, e determina una netta suddivisione di ruoli, maschile e femminile, con i loro luoghi di potere: la città e il focolare domestico, nonché l’abbandono per l’uomo di tutta una serie di ornamenti che, legati all’immaginario del lusso e dello spreco, collidono con i nuovi ideali di vita borghese. I valori protestanti della sobrietà e del miglioramento della propria condizione economica assumono un’importanza fondamentale nella trasformazione strutturale della società e determinano il mutamento del dress code maschile.
Il maschio dovendo incarnare l’ethos professionale veste una sorta di uniforme, che anche sotto il profilo cromatico rifiuta eccessi e stravaganze, considerate da quel momento femminili, privilegiando tinte scure e sobrie. L’abbigliamento maschile diviene mezzo visivo privilegiato di accettazione simbolica dell’austerità della nuova etica, in netto contrasto con l’opulenza, l’eleganza, il libertinaggio e l’agiatezza che invece contraddistinguono quella aristocratica. La centralità del lavoro, della carriera, il primato individuale, il successo personale, l’enfasi posta sull’intraprendenza rendono necessario il rifiuto di tutto ciò che è ambiguo, frivolo, leggero, misterioso e sfuggente rispetto a questo rigore. Non viene meno però il desiderio di lusso e privilegio – note sono, soprattutto in ambito letterario, le descrizioni delle aspirazioni dei borghesi, che si concretizzano nell’acquisto di titoli nobiliari o in matrimoni con nobili decaduti, condannando ironicamente il loro status -, che non potendo più riguardare l’uomo viene dirottato sulla donna, la quale conserva gran parte del dress code dell’epoca precedente. Con la donna anche la casa diviene luogo di manifestazione delle nuove forme della ricchezza, per cui il dress code viene esibito oltre che con l’abbigliamento anche per mezzo dell’arte del ricevere, attraverso il design di interni e le architetture, che si qualificano come il riflesso dello status guadagnato dal capo-famiglia all’interno del sistema borghese, che si regge fino a quando la donna non entra nel mondo del lavoro, a fasi alterne lungo tutto il Novecento e negli Anni Ottanta definitivamente.
A quel punto ci si trova di fronte a uno slittamento che necessita di ripensare il dress code in vista una serie di limitazioni che il lavoro impone al suo corpo: minimizzare l’appeal sessuale e eliminare tutti gli elementi di leggerezza che fino a quel momento avevano caratterizzato il suo universo a vantaggio di quelli mutuati dall’immaginario maschile. La nuova donna, sportiva, snella, muscolosa, aggressiva e ambiziosa, veste per il successo. Il dress for success è il suo nuovo dress code: l’abbigliamento-divisa per il carrierismo. Uno stile semplice, in cui non scompare la femminilità ma si combina con la mascolinità, riportando in auge il fascino dell’androginia. Negli Anni Ottanta in particolare il dress code della donna in carriera si trasforma da dispositivo di marcatura temporanea dell’identità, ovvero del suo ruolo professionale, a stile di vita, determinando la sua nuova dimensione performativa: sempre executive, 24 ore su 24, 7 giorni su 7, senza eccezioni. La nuova donna metropolitana è la young urban professional, una figura femminile che privilegia valori come: comfort, discrezione, indipendenza, da Giorgio Armani a Donna Karan.
Se questi sono gli immaginari della Storia della Moda che transitano tra USA e Europa, occorre ricordare che non per questo i cambiamenti hanno interessato esclusivamente i due continenti, con le loro capitali del fashion system: Parigi, Londra, Milano, New York. Uno sguardo più esteso ci permette di cogliere l’estensione di queste influenze anche in quei territori che, erroneamente, sembrano oggi alla loro prima alba. Hong Kong è considerato il centro propulsivo della nuova Cina. Vanta una storia di sguardi, aspirazioni e interessi legati alla moda, che è meno recente di quanto si creda. Già a partire dagli Anni Trenta del Novecento è considerata dagli abitanti di Shanghai come un centro urbano occidentalizzato (WestEast Magazine, Hong Kong, n .15, 2005). L’ammirazione che i suoi abitanti nutrono per la moda occidentale li porta non semplicemente sulla strada dell’emulazione, bensì di una produzione locale assai cospicua e di valore, che travalica ogni forma di esotismo.
Ancor prima degli Anni Ottanta, anche qui permeati dal dress for success, le star del cinema locale guardano a Parigi – Dior, Chanel, Balenciaga, Saint Laurent – e Londra – Twiggy, Mary Quant, i Beatles, i Rolling Stones, la moda hippie – e indossano abiti provenienti dall’Ovest, contribuendo alla formazione di una “fashion culture” fortemente decostruita, che possiamo ammirare durante le Hong Kong Fashion Week, dove dopo gli Anni Novanta nuovi giovani stilisti, tornati dai loro studi all’estero, stanno riformulando lo stile, la moda e l’identità. Questo discorso ci permette di tornare all’oggi, alle metropoli come nodi di flussi, che sono sempre state, ma di cui si è consapevoli solo se si guarda alla Storia e alla Storia della Moda a partire dalla prospettiva dei viaggiatori. Per i quali il nuovo paesaggio urbano, discontinuo, frammentario, immateriale, sconfinato, virtuale, non è poi così nuovo. Non è altro che il prodotto di una mente che è diventata collettiva e di esistenze mobili. Lampi associativi, sinapsi, dislocazioni cognitive, disincanto, sincretismo, cosmopolitismo, ibridismo: questi sono i paradigmi di una mente che ha assunto una dimensione planetaria e sensibile, è divenuta mondo e metropoli, autostrade dell’informazione e trasporti, performance, estetica, self-fashioning e poetica dell’impurità.
Saggio tratto da Extended Mind. Viaggio, comunicazione, moda, città, a cura di Carlotta Petracci, anno 2006.