Un cinema di pancia, sincopato e rabbioso è quello che ci propone l’autore israeliano Nadav Lapid con il suo quarto lungometraggio Il ginocchio di Ahed (Ahed’s Knee), in concorso alla 74esima edizione del Festival di Cannes. Un film nel film, o meglio la storia di un regista Y (Avshalom Pollak), in cerca di finanziamenti per il suo nuovo progetto audiovisivo dedicato all’attivista palestinese Ahed Tamimi, protagonista nel 2017 di un video virale, in cui reagiva alle intimidazioni di due militari israeliani. Divenuta rapidamente un simbolo di resistenza e opposizione venne presa di mira da alcuni oltranzisti che le augurarono di rimanere paralizzata per sempre, richiamandosi alla famosa immagine della pallottola nel ginocchio. Ed è proprio focalizzandosi su questa parte del corpo che Lapid comincia a raccontare la sua storia. Dopo un inizio con una furiosa corsa in moto sotto la pioggia, che sembra girata in soggettiva ma non lo è, una donna si sfila la tuta in pelle ed entriamo nel vivo del casting che Y sta facendo per trovare la sua protagonista.

Il ginocchio di Ahed, Nadav Lapid, still da video.

Atmosfere e montaggio in questa prima parte devono molto al linguaggio del videoclip. In realtà tutto il film ne è contaminato. Scelta stilistica che permette a Lapid di affrontare un argomento serio, come la disgiunzione di se stesso e del suo protagonista da Israele, senza richiamarsi a un contenuto di tipo intellettuale bensì facendo vivere le immagini sul piano quasi esclusivamente sensoriale, in maniera da caricare il suo J’accuse fino all’esplosione finale, facendo in modo che lo spettatore sia costretto a reagire più che capire. A sentire il travaglio, ciò che si agita nella mente e nel corpo dell’artista di fronte ad uno Stato che si intende democratico, ma che in realtà legittima la censura. La tensione, che questo protagonista estremamente spiacevole e respingente genera, si dipana su più fronti. La percepiamo quando Y è da solo, ma soprattutto quando incontra Yahalom (Nur Fibak), un’alta funzionaria del Ministero della Cultura che, oltre a riceverlo, ha il compito di fargli firmare un documento che definisce quali argomenti possano essere trattati nella conversazione col pubblico che seguirà alla visione di un suo film.

Il ginocchio di Ahed, Nadav Lapid, still da video.

Dal contesto urbano del casting ci siamo infatti spostati in un remoto villaggio in mezzo al deserto dove Y comincia ad innescare il meccanismo che farà crescere la frustrazione e la tensione, a partire dall’incontro con questa donna affascinante, di potere, con la quale la carica erotica non può esprimersi per via del suo ruolo, ma anche del tipo di gioco di seduzione e aggressione (verbale finale soprattutto) in cui lui la trascina, per farla diventare un po’ il capro espiatorio di tutti i mali di Israele. Due sono i dialoghi che puntellano la storia e la tengono insieme, anche quando sembra deragliare con delle parentesi il cui senso è difficile da inquadrare: il primo di benvenuto e l’ultimo, in mezzo al deserto di rocce, dove tra le urla sgorgano lacrime. Che cosa vuole ottenere Lapid con questo film così arrabbiato e discontinuo? Che alterna ritmi sostenuti, con un susseguirsi di panoramiche a schiaffo disorientanti, ad altri distensivi, dove lo spazio naturale e architettonico diventano un’occasione di pausa e di respiro da questo tormento, che vive Y tanto quanto lo spettatore, perché è difficile rimanere indifferenti o non provare neanche a opporsi alla carica emotiva di questo personaggio, che sembra non ragionare mai. Se non nel finale, dopo uno sfogo disperato, dopo una prova estrema, quando si rende conto che forse non è Yahalom la colpevole, sono tutti gli israeliani, che accettano in silenzio, rendendo quindi vano il suo tentativo di ribellione.