Casa, famiglia e identità. Tre temi che si intrecciano ed entrano in contrasto ne Il legionario, primo lungometraggio di Hleb Papou, regista di origini bielorusse, oggi italiano, presentato nella sezione Cineasti del Presente a Locarno 74, dove il suo autore ha vinto il premio come miglior regista emergente. Con uno sguardo fuori dal coro viene affrontato il discorso dell’emergenza abitativa, a partire da una storia che vede opporsi due fratelli, immigrati di seconda generazione, africani, che hanno scelto strade diametralmente opposte di integrazione. Daniel, il protagonista, ha abbandonato la famiglia di sangue per entrare in quella ben più allargata della Celere, con una cesura netta nei confronti della sua precedente vita da occupante; Patrick, il fratello idealista nonché antagonista, è rimasto con la madre nel palazzo di Roma, che hanno occupato insieme ad altre quasi 500 persone, continuando ad amministrarlo con la sua attività nel Comitato, cercando di dimostrare che la convivenza multietnica può portare a virtuose forme di auto-organizzazione dal basso, senza per forza abbracciare una visione univoca e monolitica della società e delle risposte che quest’ultima può dare all’abitare.
L’inizio del film mette subito a fuoco il conflitto, che viene sviluppato lungo gli ottanta minuti del lungometraggio e trova una risoluzione nel finale, se non con un punto decisivo, perlomeno con una scelta di necessità, che figura come una pausa. Daniel, chiamato amichevolmente dai compagni della polizia Ciobar, si trova faccia a faccia, in uno scontro di strada, con dei “fratelli” di colore. Non sta però lottando insieme a loro, bensì sta cercando di sedare i loro disordini. Chi è Ciobar: un nuovo italiano, con una vita regolare da celerino pagato dallo Stato, o un traditore? La posizione in bilico e dalle risposte per nulla scontate ricorda quella di Gwada, il poliziotto di origini africane del film Les Misérables di Ladj Ly, presentato alla 72esima edizione del Festival di Cannes. Analogo conflitto di appartenenza, con una differenza sostanziale: Papou sceglie di stringere la morsa dei legami, dalla comunità o dall’identità razziale, concetti che fondano il senso di appartenenza ma più astratti, alla famiglia naturale. Traditore quindi nei confronti di una madre, di un fratello, di un passato vissuto e poi rifiutato? Pesa come un macigno quella frase detta dalla madre in un momento di rabbia, che oppone i due fratelli e si schiera dalla parte del ribelle o del più “autentico” Patrick: “Lui almeno non fa finta di non avere una famiglia”.
Famiglia di origine e famiglia di adozione, la polizia, sono i due fuochi tra cui si dibatte Daniel, tra menzogne e tentativi di nascondere i legami originari, perché proprio quelli sono fonte di un conflitto sociale, che sposta la storia su un piano politico. Emergenza abitativa, occupazione, sgombero: da che parte stare? Da quella delle istituzioni e quindi compiere il proprio dovere di poliziotto e anche con la forza sgomberare gli occupanti, tra cui la propria famiglia, rinnegando senza gratitudine il passato e tutti i ricordi dell’infanzia, del trasferimento, della resistenza, di quelle condizioni che, anche se borderline, gli hanno permesso di guadagnarsi una vita più stabile e migliore, o da quella degli occupanti, cercando di proteggerli, aiutarli, convincendoli ad abbandonare il palazzo con la diplomazia? Daniel continua per tutto il film a fare entrambe le cose, a tenere insieme una lacerazione esteriore che diventa sempre più profonda interiormente. A Papou va il merito di aver saputo tradurre in immagini, e facendo parlare poco il suo protagonista, questa divaricazione, questa schizofrenia, e allo stesso tempo aver messo lo spettatore in una posizione critica, di riflessione, non di giudizio, con quel continuo campo e controcampo tra fratelli, ognuno con le proprie ragioni, capace di restituire la complessità della ricerca della propria identità in un nuovo luogo e problematizzando il significato dell’espressione “sentirsi a casa”. “Le persone come noi non mollano mai” urla Patrick dal tetto durante lo sgombero, minacciando di buttarsi, ma anche le persone come Daniel non lo fanno, quelle che con fatica, pazienza e coraggio, sopportando innumerevoli pressioni, cercano sempre di tenere insieme i pezzi, di salvare vecchie e nuove famiglie, di non lasciarsi sopraffare dal “chi sono stato”, sperando in un futuro diverso.