Il mondo è tutto qui, in un riassunto concentrato di immagini verosimili da consumare. La geografia è una metafora infantile della compressione spazio temporale dell’era postfordista, un restringimento del nostro spazio simbolico in nome della globalità, che si riconosce in un unico paradigma: il mercato e il modello culturale che lo legittima. La “disneyficazione del mondo” avanza sotto le spoglie dell’innocenza, conquistando spazi simbolici e sociali sempre maggiori, all’insegna dell’immaginazione, del divertimento e della privatizzazione, riducendo i nostri viaggi a scorribande da turisti. Sono le “grandi idee per un piccolo pianeta”, come recita uno slogan dell’IBM, quelle che contribuiscono al suo restringimento e che determinano il nostro stato di “angoscia territoriale”, condizione ineludibile dal momento in cui qualsiasi luogo appare contemporaneamente straniero e conosciuto, la voglia di esplorazione e la sete di conoscenza bastano per il tempo di una vacanza o il riposo su una comoda poltrona. È la cultura televisiva ad aver “creato una sorta di identità sociale alienata, anonima, un’affettività comune a tutti gli spettatori, un codice referenziale che si materializza nei nonluoghi inaugurando un senso di appartenenza catodica che pervade i nostri percorsi quotidiani. E lo fa secondo i canoni che guidano la ricostruzione degli spazi turistici, fondendo consumo e turismo, già in osmosi, con altre funzioni dell’urbanità contemporanea” (Minca Claudio, Spazi Effimeri, pag.165).
Lo spazio turistico si candida allora a modello delle nuove forme della socialità contemporanea, del loro carattere effimero e artificiale, costruito sulle nuove immagini dell’alterità. Non più l’Altro o l’Altrove, ma un cumulo di frammenti e tipi, reali o immaginati. Gli shopping mall rappresentano la forma più compiuta di nonluogo. La struttura del centro commerciale sta radicalmente cambiando, in relazione all’importanza attribuita all’intrattenimento, oltre che all’acquisto delle merci. La disneyficazione sta incrementando il loro potere attrattivo.
La localizzazione ai margini delle città ne polarizza il territorio, promuovendo nuovi insediamenti e agglomerazioni nel loro intorno. L’archetipo del centro commerciale sono i passages parigini, successivamente i grandi magazzini: gallerie coperte che comprendono negozi, caffè, sale da tè, sale per la lettura e locali di spettacolo. Lussuosi e confortevoli come gli spazi privati, sono spazi pubblici, “democratici”, perché accessibili a tutti, dove la funzione commerciale si fonde con quelle ludica, di relazione sociale e affari. Con l’industrializzazione della produzione e il consumo di massa, nascono i grandi magazzini: non più gallerie coperte, ma veri e propri luoghi dedicati alla distribuzione delle merci, che per via della qualità minore e dei prezzi più accessibili, necessitano di un surplus di teatralizzazione per indurre all’acquisto.
Il centro commerciale diversamente dai passages e dai grandi magazzini, integra le funzioni di vendita e di incontro tipiche del mercato, rappresentando un suo perfezionamento. La sua struttura è costituita da gallerie comunicanti, contenenti un grande supermercato o ipermercato, attorno a cui si dispongono negozi, ristoranti, punti di ristoro e di divertimento. Successivamente con la crisi dei supermercati e dei megastore di stampo moderno, causata dalla monotonia di questi spazi, un nuovo modello di centro commerciale, dal carattere innovativo e dalle grandi dimensioni, fa il suo ingresso sulla scena. Gli shopping mall sono strutture di notevoli volumi che ospitano al loro interno uno o più grandi magazzini di stampo tradizionale, accanto a una moltitudine di piccoli distributori e servizi di varia natura. Sono ambienti completamente artificiali che trasferiscono indoor il tema della grande strada commerciale, con la medesima suddivisione dello spazio di vendita in lotti. La loro configurazione interna tende a enfatizzare il carattere di ‘separatezza’ rispetto all’esterno: attraverso entrate spettacolari, guardie e telecamere che controllano e regolano l’accesso. Vengono percorsi a partire da una logica di flusso, sotto il costante effetto di sollecitazioni (attrazioni) e tranquillanti (controllo). Il loro carattere conchiuso è il prodotto di una cultura, quella anglo-americana, che tende a privilegiare, per via di condizioni climatiche poco favorevoli, la vita indoor piuttosto che outdoor. Per questo motivo la loro estensione a altri territori, con altre abitudine comunitarie, risulta quantomai aliena.
La presenza all’interno di conformazioni urbane di tipo europeo, può comportare la perdita dell’assetto comunitario. Può accadere però che alla frammentazione delle comunità di vicinato, che non si riconoscono più nei nuovi centri di aggregazione, facciano seguito altre forme comunitarie, mediate da relazioni impersonali fondate sul consumo. Altre frange di popolazione, che vivono i quartieri della città lontani tra loro possono incontrarsi in questi spazi. “I nuovi luoghi del consumo – come osserva Vanni Codeluppi – sono degli attivi partecipanti, ma al tempo stesso anche alcuni dei principali fattori propulsivi di quel processo di internazionalizzazione e globalizzazione della cultura sociale che è in atto nelle società ipermoderne. Operano in uno spazio “transnazionale” che è quello dove le marche delle grandi corporations mettono ovunque il consumatore nelle stesse condizioni di acquisto. È dunque anche uno spazio che si trova all’interno di un flusso comunicazionale circolante in tutto il pianeta e che produce una crescente interdipendenza culturale tra i popoli” (Codeluppi Vanni, Lo Spettacolo della Merce, pag.34).
Si tratta di uno spazio “democratico” e ben riconoscibile, che in quanto tale giustifica la presenza al suo interno di una popolazione composita. Secondo il “paradosso” di Nasbitt la riconoscibilità non è sintomatica di omogeneità; questi sostiene che il mondo tenuto insieme dal commercio globale e dalle nuove tecnologie non sia affatto estraneo ai contesti nei quali si inserisce, tendendo a “localizzarsi” radicandosi profondamente nelle culture particolari (Codeluppi Vanni, Lo Spettacolo della Merce, pag.34). Questa considerazione però interessa più la forma (le strategie di mercato delle multinazionali) che la sostanza (ciò che di fatto il consumo incoraggia), poiché a ben vedere i nonluoghi commerciali promuovono sempre il medesimo paradigma di interazione sociale, in cui l’interlocutore non è dato dai componenti della comunità di appartenenza, ma da una serie infinita di testi e immagini pubblicitarie.
Si crea, come riferisce Marc Augè in Nonluoghi, una contrattualità solitaria tra i cittadini-consumatori che fruiscono di questi spazi commerciali; anche se spesso questi spazi omogenei che si danno come base per la commodificazione delle esperienze socio-culturali, vengono risignificati da piccole tribù, che si scambiano, attraverso l’abbigliamento e le pratiche corporee, segni di una nuova appartenenza culturale. Nonostante questi casi isolati, che interessano principalmente la popolazione giovanile, l’assenza di una comunità che li regga o che li abbia prodotti diventa manifesta nella ricostruzione di luoghi tipo – la piazza, il mercato, il viale – allo scopo di soddisfare la nostalgia per gli spazi sociali tradizionali. Anche lo spazio del mall alla stregua di quello disneyano “si presenta come qualcosa di altro da quello che è, strutturandosi in modo da far apparire che lì sta accadendo qualcosa, che il mall è un luogo polifunzionale, e che il consumo di beni e servizi è solo una della serie di pratiche che vi hanno luogo” (Minca Claudio, Spazi Effimeri, pag.167). Tutto viene celato in nome della spettacolarizzazione del consumo, affinchè i retroscena non percepibili, finiscano col non essere neppure pensabili. Perchè il modello a cui si rifanno è quello della “città ideale”: una città utopica come la sua pretesa di veridicità.
Saggio tratto da Extended Mind. Viaggio, comunicazione, moda, città, a cura di Carlotta Petracci, anno 2006. Post Turismo, Parte III.