Da quando viaggiare è diventata una pratica comune all’interno dell’attuale società globalizzata, il mondo viene posto sotto l’assedio dei mediascapes, che costruiscono narrazioni e rappresentazioni che possiamo, in parte, definire di moda e di stile, confezionate per essere consumate e presentate attraverso siti web, televisioni tematiche, riviste e guide turistiche, nelle quali contenuto e forma sono inscindibili. In questi casi ci troviamo di fronte a microambienti e composizioni selettive a partire dalle quali i globe trotter definiscono il gusto e le preferenze di consumo di prodotti, luoghi, territori, culture, trasformando il mondo, le comunità e il viaggio, in facili esperienze da acquistare. A tal proposito leggiamo nell’Editor’s letter del primo numero di Wallpaper Navigator: “Travel used to be a simple proposition […]. Today we are no longer united by nationality, generation or tax bracket, but purely by attitude and lifestyle. […]. We want to make travel a simpler proposition once again. […]. We offer what you need to see and do, where you need to go (and on what night) and what you have to buy” (Editor’s letter, Wallpaper Navigator, n.1, 2004). Ecco le premesse di una “nuova responsabilità”, filtrata, sospesa, eterodiretta, affidata a team corsari che scoprono e rivelano luoghi meravigliosi – in e out all’interno delle metropoli, villaggi incontaminati o ricostruiti, quartieri pittoreschi -; che tessono trame, e in maniera sempre più personalizzata selezionano i “best places, products and people” in cui andare, da avere, a cui assomigliare, in cui credere.
Così la comunicazione viene indossata e incorporata, si accetta di diventare e di trasformare gli altri – siano essi luoghi o persone –in immagini e esperienze da acquistare, illusioni puerili che vantano il sogno di un’irreale scoperta. Le piccole e discrete rivoluzioni quotidiane si compiono nella selezione dei media e dei consigli che si dispiegano entro un mondo che diviene Moda, come sostiene Michel Maffesoli, alla moda e di moda. Un mondo che rifiuta l’incrocio di teoria e biografia; estraneo alla capacità critica, riflessiva e performativa di un certo tipo di self-fashioning; una costruzione identitaria che non problematizza gli spostamenti e gli sconfinamenti. Dal momento in cui si sceglie di offuscare lo sguardo al punto da non essere in grado di leggere le striature dolenti, i confini e le barriere, si compie una vera e propria inversione della pratica del nomadismo psichico. Si lascia che lo spazio – territoriale, culturale, corporeo – non venga più pensato in qualità di de- e riterritorializzazione antropofagica, bensì si trasformi in una superficie costellata di tanti “dove”, in una cartografia in cui non esistono differenze né disparità, in cui al gioco dell’essere si sostituisce quello della moda: dei segni senza storia né memoria da rivendicare. Fusion e sincreclettismo, esotismo e patina si qualificano come tendenze onnipresenti che ridisegnano gli orizzonti delle peregrinazioni quotidiane deformate, ma non problematizzate, dalla presenza dell’alterità. Per cui travel, parola che un tempo indicava travaglio, significa sempre più viaggiare con stile e interpretare la vita in qualità di lifestyle. Consumo del mondo e di sé stessi.
Tra i luoghi privilegiati di testualizzazione di questo stile globale e delle sue modalità di esclusione e inclusione dell’alterità, si possono annoverare due riviste: Wallpaper e Spruce. Entrambe di origine britannica e a diffusione internazionale, si pongono esplicitamente come guide del gusto contemporaneo, costruendo un discorso sulla moda che si regge sulla tematizzazione e la traduzione in immagini dei processi di globalizzazione, localizzazione e consumo culturale, che si inseriscono in quello che James Clifford definisce il “sistema mondiale tardo capitalistico di culture”. La messa in scena del mondo in entrambi i casi è regolata da un’apologia del decentramento, che ricalca in modo superficiale e glamour una certa ideologia postmodernista, che dipinge con entusiasmo soggetti decentrati e privi di radici, senza considerare che questo habitus corrisponde solo a una ristretta cerchia di persone, che possono permettersi il lusso del nomadismo e di una vita cosmopolita. Non ci troviamo quindi di fronte alle tradizionali riviste di moda bensì al cospetto di voci autorevoli che registrano il divenire moda del mondo; la globalizzazione della moda e la modalità attraverso cui questo processo, costituendosi come discorso, si autorappresenta.
Analogamente accade nelle guide Style City edite da Contrasto che, attraverso un’immagine coordinata molto forte e una fotografia a regola d’arte, propongono percorsi, dal sapore neo-tradizionale, all’interno di alcune delle più note metropoli europee (fa eccezione New York, anche se a buon diritto si può considerare la più europea delle città americane. Ogni volta che si intona il discorso sulla moda, o meglio su moda, modernità e città, New York infatti diventa un esempio imprescindibile, non solo per la fama delle sue fashion week, ma anche come territorio di contesa e ibridazione tra: lusso globale e stili provenienti dalla strada). Nelle guide i luoghi vengono venduti come segni e sistemi di valori riducendone la complessità, quanto variandola. I luoghi si spogliano dei locali, che al massimo entrano come comparse, vengono etichettati con frasi ad effetto e tendono sempre più ad assomigliare a nonluoghi; essi stessi sono soggetti a questo processo di mummificazione che, negando sul piano dell’immaginario la vitalità del reale, seduce a tal punto da determinare confluenze massive e nuove forme di realtà.
Saggio tratto da Extended Mind. Viaggio, comunicazione, moda, città, a cura di Carlotta Petracci, anno 2006.