Cosa pretende una figlia dalla propria madre? Quel verbo così sfrontato, “pretendere”, dice tutto. Racconta una relazione complessa, che fin troppo spesso viene riproposta attraverso una visione semplificata dell’amore. Un po’ come se fosse dato per scontato che una madre debba amare una figlia e una figlia debba amare una madre. Ma amare non significa volere bene. E infatti non è tutto qui. Si tratta di un rapporto attraverso cui una donna scopre e comincia a definire la propria femminilità e sessualità, come spiega dettagliatamente il libro di Malvine Zalcberg (Cosa pretende una figlia dalla propria madre? La relazione tra madre e figlia da Freud a Lacan), quindi un rapporto, se si ha voglia di scavare sotto la superficie, burrascoso e se si ha paura di farlo, silenzioso. Tutti abbiamo vissuto i primi nove mesi della nostra vita dentro il corpo di una donna, ma chi può dire di conoscerla veramente? E lei, che cosa sa di noi? Non è difficile comprendere come quel corpo a corpo si trasformi in distacco, spesso in fuga, anche solo di fronte all’azione di sfiorarsi. È senza dubbio crudele che un legame così intimo si tramuti in reticenza, spesso rabbia e diciamolo, è forte, ma succede, disgusto, eppure è una necessità per intraprendere il cammino della definizione della propria identità. L’uomo rivaleggia col padre, la donna trasferisce su di lui l’amore originario provato per la madre e poi impara ad amare un altro uomo, con il corpo.
https://www.youtube.com/watch?v=XrR8cBzKqDc
Nel documentario Jane par Charlotte di Charlotte Gainsbourg, presentato in anteprima alla 74esima edizione del Festival di Cannes, sulla madre Jane Birkin, che non è e non vuole essere la storia di un’icona e che nel titolo ricorda il celebre Jane B. di Agnès Varda, già sintomatico tentativo di decostruzione della star e del suo corpo, la frattura di questa relazione e la voglia di esplorarla passa dalle prime domande che la figlia rivolge alla madre. Anche in questo la Gainsbourg si rifà alla Varda, dichiarando di voler filmare il suo corpo per conoscerla meglio e analogamente pretende lo sguardo in macchina quando le pone domande personali, intime e scomode. Perché quella timidezza, quel pudore nei miei confronti chiede Charlotte, perché quella difficoltà anche solo nel toccarmi? Ogni figlio è differente, le personalità sono un ingrediente fondamentale nella forma che prendono le relazioni, lei lo sa e vuole andare oltre, perché non è facile da accettare (anzi forse inaccettabile) quando si tratta del rapporto con la propria madre. Jane che è una donna ben oltre la maturità, ancora una volta non nasconde il proprio imbarazzo ma sceglie di affrontarlo, provando a spiegare non solo il pudore che si prova nel toccare il corpo di una figlia (le due donne, entrambe madri e di due generazioni differenti si confrontano poi su questo aspetto, lasciando emergere il lato più ludico di Charlotte, che vive il rapporto con maggiore naturalezza) ma definendo Charlotte un territorio sconosciuto, un essere umano così misterioso e lontano da lei, da determinare quel timore di avvicinarsi, quella paura di offenderla, e sottotraccia di non essere a sua volta capita e rifiutata dalla figlia.
https://www.youtube.com/watch?v=YSY9xaNZrAU
Chiaramente al centro ritroviamo il corpo, concezioni differenti del corpo, come dimostrano anche le carriere delle due donne. Il corpo apollineo della Birkin e quello, possiamo dire aperto e dionisiaco, della Gainsbourg, che grazie a Lars von Trier in Nymph()maniac ha messo a nudo la sua volontà nell’esplorare i lati oscuri del desiderio, della sua difficoltà di soddisfazione e della sessualità. E questa volta è con la camera o la macchina fotografica, con molta delicatezza, la stessa che si prova nell’ascoltare la dolcezza del tono della sua voce, che si insinua nella vita della madre facendo emergere anche i passaggi fondamentali in cui la Jane bambola sceglie di diventare una donna, di lasciarsi alle spalle l’immagine romantica che l’aveva iconizzata, gli uomini che aveva amato e per i quali aveva sofferto, e di procedere spedita nella direzione della definizione della sua identità. Questa volta auto-diretta.
È così che scopriamo come la morte di Kate, la figlia avuta col compositore John Barry, abbia rappresentato un punto di non ritorno. Una trasformazione radicale, sancita anche dall’abbandono degli specchi, dal rifiuto di vedere la propria immagine riflessa, orientata al bisogno di scendere in profondità, concentrandosi sulla voce. Afferma a un certo punto: “la voce non cambia mai”, voglio che le persone mi ricordino, mi conoscano attraverso la voce. E mentre il documentario regala anche momenti musicali di grande, seppure breve, intensità emotiva, ecco che comprendiamo il senso di questo confronto. Quando una madre comincia ad invecchiare, per la prima volta proviamo la paura di perderla (quella paura che forse lei stessa ha provato prima di noi, lasciandoci andare) e sentiamo il bisogno di conoscerla, di ricordarla, di fissarla in immagine, di accompagnarla, anche anzitempo, verso la morte, sganciandoci definitivamente dalle insicurezze infantili dell’abbandono e abbracciando l’esperienza piena della vita.