Johanna Elina Sulkunen. Photo: Julie Montauk.

Può l’esperienza dell’ascolto insegnarci a pensare diversamente? Questa è la domanda che sta alla base di Coexistence, il nuovo album della compositrice e producer finlandese Johanna Elina Sulkunen. Il punto di arrivo di una trilogia, partita con Koan e proseguita con Terra, in cui le sperimentazioni sulla voce l’hanno spinta a confrontarsi con diversi livelli riguardo al tema della risonanza. Partita con un progetto molto intimo (Koan), è passata al confronto col mondo naturale (Terra), per approdare a quello sociale (Coexistence), investigando lo spazio liminale in cui si collocano tutte le persone che vivono ai margini, dagli homeless ai rifugiati. Il risultato è un album che artisticamente rappresenta un contributo all’umanità, dove la sua voce funge da piattaforma per accogliere quella altrui, esplorando l’importanza di temi universali come la felicità, la casa e la corporeità.

Quando ti sei avvicinata alla musica e qual è stato il tuo percorso?

A sette anni ho cominciato a suonare il violino, poi sono passata alla chitarra e al piano. Successivamente è venuta la voce. Ho studiato al Conservatorio e in Olanda ho frequentato una scuola di jazz. Poi mi sono trasferita in Danimarca dove ho frequentato sempre il Conservatorio.

Per quanto riguarda l’utilizzo della voce, quali sono stati i passaggi per far evolvere il tuo approccio?

Un cambiamento importante è avvenuto sei anni fa, quando ho cominciato ad avvicinarmi all’elettronica, quindi a variare i miei strumenti. In quel momento ho cominciato a orchestrare la mia voce facendo diventare le composizioni più complesse. Prima avevo un modo più tradizionale di comporre, partivo dal piano, sviluppavo una melodia e successivamente mi occupavo della canzone. Quando mi sono presa una pausa dal Conservatorio in Olanda, ho iniziato a improvvisare liberamente, prestando particolare attenzione alla voce, con l’obiettivo di esplorarne le qualità. 

Hai affermato di utilizzarla come uno strumento. Che cosa significa esattamente?

Sono interessata a esplorare le innumerevoli possibilità della voce, principalmente la risonanza. Questo è il motivo per cui il mio progetto si chiama Sonority. Pratico la meditazione e presto attenzione a come risuona nel corpo. È un approccio molto intimo che entra in relazione col cervello e con i corpi stessi delle persone. Perché la voce viene utilizzata anche come medium per comunicare.

 

Coexistence, Johanna Elina Sulkunen. Album, artwork.

 

Questa è l’idea che hai voluto esprimere nel tuo ultimo album Coexistence, giusto?

Esattamente, sono passata da un percorso intimo e personale, al considerare la voce come medium di relazione. La voce risuona tra le persone, che fanno esperienza delle diverse frequenze, anche fisicamente, parlandosi. L’esperienza della comunicazione avviene a molti livelli, quello del senso, del tono, delle emozioni. Quindi nel considerare la voce come strumento dobbiamo tenerne conto. Questo è il mio approccio. 

In questo progetto per la prima volta, rispetto ai due album precedenti della Trilogia che sono Koan e Terra, ti sei aperta all’utilizzo di altre voci. Quali sono stati i criteri per cercare e scegliere le persone che hai coinvolto?

Il concetto alla base di Coexistence era investigare lo spazio sonoro in cui tutti siamo immersi in maniera eguale, anche se spesso viviamo in realtà molto differenti. Ne facciamo esperienza quotidianamente, condividendo le strade con gli homeless, per esempio. Volevo raggiungere queste persone, che spesso non vediamo, e indagare lo spazio luminale in cui vivono, raccontando le loro storie. Dove si collocano nella società, cosa fanno? Le prime persone con cui sono entrata in contatto sono state prevalentemente rifugiati e homeless, persone che non appartengono a nessun luogo. La mia prima intervista è stata con una rifugiata siriana, che mi ha subito fatto notare quanto la mia posizione e il mio sguardo fossero stigmatizzanti, perché lei non voleva rispondere per l’ennesima volta a domande che appiattivano la sua identità personale su quella di rifugiata. In quel momento ho capito che dovevo cambiare approccio, che così facendo aumentavo il divario che ci separava. Per cui ho lasciato che emergessero dei temi più universali. Lei ha scelto di parlare della felicità, anziché della sua posizione nella società.

Quindi nella traccia Happiness c’è la sua voce?

Sì, come quella di altre persone. Non volevo aumentare il gap e la diseguaglianza. Così ho modificato il concept concentrandomi appunto su temi più universali che sono emersi chiacchierando, come la felicità, la casa, la corporeità. Tutti li hanno trovati importanti. Esattamente come tutti viviamo in uno spazio limitale, a seconda della prospettiva da cui lo si guarda. Il titolo dell’album fa riferimento a queste domande e tematiche, che sono complesse.

 

Johanna Elina Sulkunen. Photo: Julie Montauk.


Hai voluto veicolare un punto di vista politico, oppure hai semplicemente scelto un approccio giornalistico funzionale a comprendere e rappresentare meglio la realtà, anche in forma musicale?

Credo che il mio punto di vista fosse implicitamente politico e che riguardasse il disagio e l’irritazione che provavo di fronte a questa disuguaglianza. Far parte di una società significa interrogarsi sui livelli da cui è composta, osservare le diverse situazioni da punti di vista nuovi, differenti. Credo anche che l’esito del progetto sia stato politico, per quanto io fossi e sia più interessata a fare esperienza di questi livelli e restituire un contributo artistico, che consenta ad altre persone di interrogarsi a loro volta, oppure di sentirsi coinvolte, di trovare connessioni, sentire il bisogno di appartenenza e manifestare il proprio desiderio di comprensione. 

Dove e come hai registrato le voci?

La maggior parte le ho registrate nelle strade di Copenaghen. Alcune in delle case, altre il luoghi diversi, anche in Finlandia. Mi sono però concentrata sulla strada, dove ho incontrato svariati homeless e rifugiati siriani. Ho utilizzato il field recording per entrare maggiormente in contatto con la realtà.

Come hai combinato queste voci così sporche e ricche di rumori ambientali?

Generalmente mi piace utilizzare tutti i suoni, anche quelli ambientali in musica. Può essere un uccello, un autobus o altro. Trovo interessante integrarli, anche se la restituzione non è mai pulita e non riguarda solo la voce. Anche se nell’album la mia sicuramente lo è perchè l’ho registrata in studio, entrando in contrasto con quelle delle altre persone che hanno molti rumori che provengono dal background. Non desidero che sia tutto perfetto. Sicuramente il collante è stato l’elettronica, che mi ha consentito di uniformare la composizione. Mi interessa utilizzare voci diverse, anche di persone che non cantano, perché mi consente di far emergere ciò che di unico c’è in ciascuno di noi. 

Ci sono due tracce in cui il lavoro sulla voce è particolarmente significativo. Mi riferisco a Beyondlands ed Happiness, dove le immergi nell’elettronica, conferendo una forte identità all’album. È così?

Sì, assolutamente. Mi interessa analizzare il rapporto tra le voci e l’elettronica. All’interno di queste tracce sono presenti molte texture e layer. Mi piace integrare ciò che è acustico e grezzo con il suono elettronico. 

 

Coexistence, Johanna Elina Sulkunen. Album, mockup.


Torniamo alla Trilogia. Perché su questo album hai indagato le voci in relazione e che differenza c’è rispetto ai due precedenti?

Koan è stato un album molto intimo, dove ho utilizzato solo la mia voce, per indagarla appunto come strumento. La focalizzazione era sull’interno, sull’interiorità. Con Terra ho cercato di aprirmi verso l’esterno, considerando l’ambiente. Mi interessava esplorare la risonanza tra l’essere umano e soprattutto il mondo naturale. Ho utilizzato molti campioni della neve e del ghiaccio, per esempio. Coexistence indaga la società in cui viviamo. Volevo espandermi in questa direzione, quindi si tratta nel complesso di un lavoro che ha un movimento che dall’interno va verso l’esterno. Un lavoro che indaga questi tre livelli e che ora, a conclusione del percorso, mi ha portato a desiderare di riportare l’attenzione verso me stessa. 

Come si differenzia la tua voce da quelle degli altri?

Prima di tutto dal fatto che non parlo. Utilizzo la voce esclusivamente come suono, facendola diventare una sorta di piattaforma per accogliere quelle altrui.

Nel momento in cui utilizzi la voce come suono e non come parola, in che modo scegli e dai forma ai suoni?

Faccio un esempio semplice. Nell’album Koan avevo come riferimento un testo, tra tutte le parole c’era Love. L’ho scomposta e mi sono concentrata sull’improvvisazione della pronuncia di ogni singola lettera. Tutto accade sul momento, non è pianificato, solo successivamente cerco di organizzare i suoni che registro nella composizione.

Che importanza riveste nel tuo lavoro l’improvvisazione rispetto alla composizione?

Questa è stata la grande domanda che mi sono posta quando ho cominciato a lavorare sulla Trilogia, perché dopo aver suonato a lungo in una band sentivo l’esigenza di tornare a improvvisare, di avere maggiore libertà. Direi però che oggi nel mio lavoro la distinzione tra composizione e improvvisazione non esiste più. Sono integrate, un’improvvisazione poi diventa una composizione. Tendo a partire da un’intuizione per organizzare successivamente i suoni. 

 

Johanna Sulkunen. Photo: Julie Montauk.


Il deep listening fa parte del tuo approccio oppure è un risultato?

Credo che sia un risultato. Ma è stata anche un’esperienza che ho vissuto in Giappone, quando stavo realizzando il primo album. Mentre camminavo da sola con le mie cuffie cercando di registrare qualsiasi suono, per tutto il tempo, ho avuto la percezione che tutto, ogni rumore, suonasse come la musica. Le automobili, il vento…Così ho abbracciato questa sorta di deep listening experience che è avvenuta in maniera molto spontanea. Sicuramente sono molto interessata a scoprire gli effetti dei suoni sul nostro cervello e sullo stato mentale.

Arte e industria musicale: una relazione difficile. Che cosa ne pensi e come ti collochi tra questi due poli?

Sono due forze contraddittorie! Chiaramente è un tema sempre molto presente quando si sceglie di fare musica, ma il mio approccio non è quello di comporre pensando di entrare in una playlist di Spotify. Cerco di mantenere la focalizzazione su quello che faccio e che mi interessa. Con questo album per esempio ho voluto dare il mio contributo all’umanità, come essere umano. Si può provare a bilanciare i due aspetti, anche se quello capitalistico entra totalmente in contraddizione con quello artistico. C’è bisogno anche di sperimentare con i suoni, spingendo l’ascoltatore a confrontarsi con opere meno comuni.

 

www.johannaelinasulkunen.com