Senza dubbio stiamo transitando. Sappiamo che il nostro tempo è segnato da profondi e repentini cambiamenti strutturali che interessano la società quanto l’economia. La network society, l’attuale società transnazionale, ci spinge e sospinge su lidi diversi, su rotte impreviste, su sponde inattese in cui le parti terminali del nostro sé e quelle iniziali dell’altro si allungano, si confondono, si intrecciano ridisegnando una geografia umana e spaziale polifonica. Extralocale e intralocale sconfinano, si interfacciano e viviamo in una nuova territorialità sospesa e incerta che prende corpo seguendo una logica nomade che vede contrapporsi da una parte il desiderio, dall’altra la necessità. Net e self sono i mondi che stanno plasmando le nostre vite e i nostri spazi, combinandosi tra loro secondo una varietà di modi non rappresentabili che riflettono il mutevole incontro-scontro tra logiche delle reti globali e quelle dell’autorganizzazione locale e localizzata.

Marrakesh, Morocco. Photo: Annie Spratt.

Le tradizionali categorie di cittadinanza, interesse comune, appartenenza si dissolvono e ci consegnano un mondo in difficoltà, dove ciò che è di pertinenza della sfera dello Stato e di quella locale, il trattamento delle differenze, il ruolo del mercato, del welfare, della proprietà privata e il senso delle identità sono entrati in crisi e in cui il cambiamento di paradigma è determinato dalla mobilità generale. L’erranza ci accomuna e siamo tutti migratuer: in lotta con noi stessi, le identità individuali, collettive. Di qui la destrutturazione crescente di quelle interdipendenze che in passato hanno tenuto insieme cultura, economia, politica, territorio e progettualità, e la propensione verso nuove forme di vita fluttuanti e disancorate, per le quali le identità diventano “remote” e le multividualità presenti. Così siamo ritmi: entriamo e usciamo da ritmi e diveniamo stranieri a noi stessi e agli altri. L’estraneità è la nostra umanità condivisa, continuamente contrattata e negoziata e la moltitudine è la risposta postmoderna all’anomia, per cui dentro significa essere oltre i confini, le certezze, le verità, le maggioranze, le classi e fare parte di una collettività relazionale, trans-territoriale e plurilinguistica.

Sempre in contatto eppure distanti viviamo in più tempi e spazi, come dimostrano i panorami che ci descrivono ma non ci comprendono e che parlano di un “noi” planetario che si diffrange in una molteplicità di figure in movimento. Turisti, immigrati, pellegrini, rifugiati, esiliati, lavoratori delocalizzati, ospiti, transfuga: viaggiatori nello spirito, individualità confuse e liminali, traiettorie di fatto, minacciate e che minacciano la natura della cittadinanza. Siamo in cammino e forse, come osserva Arjun Appadurai, verso forme organizzative e di governo post-nazionali, ad un tempo globali e locali, e intimamente interconnesse. Forme impensabili, che sfidano l’immaginazione moderna e che per questo crediamo inattuabili. Realtà già presenti: reti, incroci di movimenti e flussi elettronici che destrutturano gli stati nazionali, che si pongono a favore, contro o trasversalmente rispetto al mercato, aprendo nuove prospettive all’autocoscienza comunitaria, attraverso anche il sogno di una globalizzazione dal basso. La perdita di sé investe il mondo e ridisegna i confini dell’appartenenza, che può essere fluida, multilivello e continuamente aggiornata oppure irrigidita e soggetta a raffreddamento, resistente alla precarietà che la mobilità reca con sé.

Lo sgretolamento dell’identità monolitica e stabile, nazionale e circoscritta determina una nuova condizione identitaria, quella dell’io flessibile, che si sottrae alla solidità della prima modernità e alla natura prescrittiva dei suoi rapporti e che sempre più smarrito e disconnesso si moltiplica attraverso una miriade di direzioni e ruoli. Di qui l’attuale crisi della figura del cittadino e la sua trasformazione in “rifugiato” (Agamben Giorgio, in Fiorani Eleonora, La Nuova Condizione di Vita, pag. 58), “turista” (Bauman Zigmunt, La Società dell’Incertezza; Dentro la globalizzazione e Marc Augé, Nonluoghi), “esule”, ossia in residente senza ombra, soggettività nomade immersa nel puro presente e incapace di qualsivoglia proiezione (Bonomi Andrea, in Fiorani Eleonora, La Nuova Condizione di Vita, pag.56). La realtà della globalizzazione, con le proprie istituzioni economiche, politiche, sociali, di consumo, di cultura – dai G8 alla Banca Mondiale, dalla Nike al cinema hollywoodiano, dal WTO agli universi simbolici della Coca-Cola e di McDonald’s -, e il paradigma centrale del libero mercato comportano un cambiamento strutturale negli assetti sociali, a cui si accompagnano lo svuotamento delle tradizionali forme di rappresentanza e il disinteresse nei confronti della partecipazione politica.

Ai soggetti politici convenzionali succedono i denizens, residenti stabili non – cittadini, che mantengono una relazione aleatoria con lo Stato dal quale sono contemporaneamente ospitati, inclusi ed esclusi (pensiamo non solo alla figura del turista, ma anche a quella del profugo, che appartiene ad uno Stato ma che si trova escluso dai diritti di tutti gli stati). In questo contesto liquido la presa di distanza da ciò che si era si manifesta alla luce della costante riflessione sul cosa si è, rivelando la necessità di un’identità fatta di pluriappartenenze, che diviene problema complesso da esplorare e immaginare continuamente. Le identità perciò sono adottate e scartate (Lash Christopher, in Bauman Zigmunt, La Società dell’Incertezza, pag.35), ribaltate e ripensate alla luce di un passato doloroso o di squalifiche subite, rese plurali da ibridazioni, metissaggi o semplicemente ridotte a una “presentazione teatrale del sé”. Caso quest’ultimo che ricalca la logica del consumatore postmoderno – che comprende in sé anche le figure del flâneur, del giocatore e del turista (Bauman Zigmunt, La Società dell’Incertezza) – per il quale sé e mondo permangono oggetto di valutazione estetica e prodotto di un distanziamento sul quale converge la criticità dell’attuale scena in transito.

Verso di essi non esiste affettività né responsabilità, ma solo piacere, come fondamento della mercificazione. A determinare questa posizione è la percezione di un mondo passante, leggero, dove il contatto si riduce a un puro sfiorarsi. Un guardarsi senza vedersi. Un muoversi senza capirsi. Muoversi non verso, ma in mondi in cui oblio, sospensione, identificazione, regia e recita sono la vita stessa. Vita peregrina, che non appartiene più a una collettività, a un territorio, a una meta, ma a un’individualità solitaria e ridotta che muove in circolo e consuma, che smarrisce il senso del luogo e quello di una storia condivisa e che acquista esperienze nella telecittà. Città non più come luogo dell’incontro, della discussione, del dibattito e del lavoro (moderno), ma come corpo sensibile e universo in movimento, disseminato di interstizi, spazi dell’esclusione, dell’inclusione, della reclusione e del riposizionamento che si oppongono e ‘confliggono’, disegnando un paesaggio instabile, non più contenibile né manipolabile.

 

Saggio tratto da Extended Mind. Viaggio, comunicazione, moda, città, a cura di Carlotta Petracci, anno 2006.