Modello panottico e sinottico si intrecciano: i pochi guardano i molti e i molti guardano i pochi, tutti rapiti da una contemplazione estatica che lascia incurante sullo sfondo zone buie e buchi neri in cui la precarietà non si supera e l’estraneità rappresenta ancora una sorgente di alienazione che motiva ribellione, violenza e resistenza. La nuova veste della città è quella delle architetture hi-tech, che smaterializzano i propri confini e nello stesso tempo occultano il potere e il privilegio dell’accesso. Lo Swiss Re Building, progettato da Foster & Partners, il Lloyd’s Building di Richard Rogers, la Tower 42 di Richard Seifert, la Canary Wharf Tower di César Pelli e l’edificio della GLA (Greater London Authority) di Ken Livingstone, dove si può osservare la “democrazia al lavoro”, dominano lo skyline londinese e con la loro trasparenza fantasmatica distolgono l’attenzione dai problemi reali della città: la crescente privatizzazione dello spazio pubblico e dei servizi e il costante surriscaldamento del mercato immobiliare (Domus, gennaio 2005, pag.92).
È nelle metropoli contemporanee, in questi universi ibridi, sincretici, mobili e ricombinanti, che va in crisi la “forma città” tradizionalmente perseguita dalla cultura europea, che assegnava al centro il ruolo di fulcro e simbolo dell’esercizio dell’autorità religiosa e di quella civile, in relazione al quale venivano razionalmente disposte e gerarchizzate le diverse zone urbane. Oggi, alla progressiva scomparsa dei luoghi di riunione riconosciuti da tutti, in cui un tempo avveniva la discussione delle norme necessarie all’integrazione della comunità e alla produzione del corpus di valori che fondavano la sua identità, segue la moltiplicazione di aree di transito in cui individualità solitarie e in costante movimento si riuniscono temporaneamente in folle passionali e turbolente alla ricerca di svago e protezione. Il pensiero della “pubblica piazza” lo ritroviamo confinato in quello spazio marginale, residuo e inutilizzabile che rimane fra le tasche dello spazio privato (Manning Jonathan della South African Ikemeleng Architects, in Bauman Zygmunt, Fiducia e Paura nella Città, pag.58).
In questi brandelli di territorio, dove gli espulsi si insediano e nuovi legami e reti di amicizia si producono, complessi processi di risemantizzazione avviati da culture in diaspora compongono mini-paesaggi sovrapposti, che rivelano modalità inedite di relazionarsi con lo spazio. Si assiste alla costituzione di un nuovo tipo di “localismo sradicato”, conseguenza diretta della globalizzazione, che assegna allo spazio il valore di risorsa primaria. Infatti, “mentre il processo economico procede verso una sempre maggiore astrazione dalla fisicità geografica e delle merci, coloro che vivono ai suoi margini si “prendono” il lasciato da parte che è oggi lo spazio fisico della città, nella sua dimensione primaria: marciapiedi, incontri faccia a faccia, negozi improvvisati, boutique artigiane e di riparazioni. Questo tessuto primario, dove si trovano fianco a fianco l’ambulante e lo spacciatore, la ragazza nera sulle zeppe alte, le colf filippine nella piazza di Norman Foster a Hong Kong o il sapeur africano a Belleville che si traveste con le firme dell’haute couture, non è quello che resta ancora di un passato urbano, ma è la novità con cui la povertà si manifesta e resiste nella globalizzazione” (La Cecla Franco, Jet-lag, pag.48).
L’esclusione porta alla creazione di un “terzo spazio”, uno spazio diverso da quello di provenienza e del consumo. Si tratta di un luogo off, astratto, immaginario, “un luogo della nostalgia e della presenza”, in cui la condizione fluida dell’estraneità provoca un’esperienza cognitiva, esistenziale e corporea nuova, che motiva la necessità di dare forma all’informe. In questo spazio poroso si gioca il delicato passaggio da una condizione di marginalità a una futura condizione di identità multiple, che si realizza attraverso la messa in opera di una creatività extra-ordinaria. Come sostiene Franco La Cecla “in questo processo di deterritorializzazione e riformazione del localismo i nuovi poveri non sono consumatori “perfetti”, non hanno un rapporto con gli oggetti che è quello tipico del consumatore “occidentale”, ma è un rapporto con gli oggetti anch’essi “diasporici” e frammentati nel significato, oggetti ambigui e quindi anche kitsch, sospesi tra l’imitazione di un’origine e l’effetto fiera-mondo” (La Cecla Franco, Jet-lag, pag.49).
Attività di bricolage e nuove forme di ritualità, che si traducono nell’assunzione di atteggiamenti bizzarri o di indumenti stravaganti, sono l’espressione tangibile della produzione di un’estetica alternativa attraverso la quale si procede all’appropriazione dello spazio. Si tratta di una vera e propria guerriglia semiotica attraverso la quale i residenti delle aree “tagliate fuori” impongono a loro volta i propri segnali di “divieto d’accesso”. Si tratta di una popolazione creola che, confinata in interzone periferiche, attraverso “pratiche di dissenso”, rivendica la proprietà di un territorio alieno: rompendo bottiglie, finestre, teste e lanciando retoriche sfide alla legge (Hebdige Dick, in Bauman Zygmunt, Dentro la Globalizzazione, pag.26). Uomini e donne di tutte le età, che vivono in più mondi e guardano a uno in maniera nostalgica, immettono nella nostra vita quotidiana l’energia di un altrove differente rispetto a quello fantasmatico e irreale cristallizzato in immagini da consumare a cui siamo abituati, contribuendo alla trasformazione dei volti delle città.
Saggio tratto da Extended Mind. Viaggio, comunicazione, moda, città, a cura di Carlotta Petracci, anno 2006.