Il paesaggio edificato del territorio-città non si esprime più nella fissità dell’impostazione estetizzante della tutela-conservazione, bensì si configura come un processo mutevole e dinamico legato al farsi della società glocale. La città sembra illeggibile e irrisolvibile al di fuori dei discorsi che la attuano e delle narrazioni che la costruiscono. La città, luogo delle peripezie sensoriali, appare come un ambiente densamente informato, in cui sopravvivono immagini capaci di resistere al tempo occultandosi e trasformandosi in un’infinita avventura conoscitiva dominata dalla ricorsività, dall’andirivieni delle forme e dei segni attraverso culture del collezionare, ciò che ha un tempo storico, in una sorta di gigantesco museo urbano. È il tempo passante, non quello passato, a possedere un valore; è il testa a testa dell’individuo con la città, è la battaglia del tempo individuale con quello collettivo che plasma lo spazio urbano, non la pretesa di rendere immanente ed eterno ciò che per sua natura è mutevole e polifonico: la complessa scenografia urbana.

Al modello della città diffusa costituitasi dapprima come processo di decentramento produttivo, poi come diffusione dell’economia sommersa, di deindustrializzazione, di formazione dei distretti industriali, ed infine di costituzione della campagna urbanizzata, si sostituisce uno scenario denso e stratificato fatto di forti contrasti ambientali, ma anche di delicati equilibri tra differenti paesaggi abitativi. Permanenza nel territorio di ambiti ad alto valore storico-culturale e riconversioni di aree precedentemente marginalizzate all’insegna dell’intrattenimento e del loisir. Nonostante si osservino fenomeni analoghi che interessano non solo le città europee o comunque quelle globali, bisogna ricordare che non esiste un modello standardizzato di metropoli, quanto piuttosto una serie di risposte locali a problematiche globali. Se da un lato appare evidente l’omogeneizzazione culturale e architettonica enucleata in produzioni da estetica globalizzata, è altrettanto evidente dall’altro, l’esistenza di sistemi locali di differenze, che qualificano la specificità con la quale si attua l’ibridazione dei linguaggi all’interno di ciascun territorio-città.

Ahmadu Bello University, Zaria, Nigeria. Photo: Muhammadtaha Ibrahim.

Come osserva Eleonora Fiorani: “la realtà presenta realtà urbane diversificate. La città globale è anzitutto una città multipla fatta di luoghi e spazi della multietnicità che più che convivere confliggono. È solo un’immagine o un sogno la città multietnica che coniuga identità multietnica e unicità locale. La multietnicità non superficiale, non scenografica, ma di convivenza è il sogno della città europea, un tempo cosmopolita. È il sogno della città convivente come la chiama Morace (2000), perché vede iscritta, nella storia e struttura della città europea, l’articolazione di storia e cosmopolitismo. Ma non c’è più traccia di quel cosmopolitismo che appartiene a un altro tempo o all’immagine di ciò che ci piacerebbe essere. Ed è l’altra faccia della realtà che ci trova scoperti, incapaci di affrontare la presenza dell’altro” (Fiorani Eleonora, Tutto da Capo, n.2, pag.7). Vivere in uno spazio multiplo, composito, formato e informato dalle diaspore culturali si configura come un’esperienza che non ha precedenti nella modernità, alla quale siamo tutt’ora ancorati, bensì in un passato che necessita di essere recuperato e poi superato, alla luce delle differenti motivazioni che sostanziano questa rinnovata centralità del movimento.

Per abituarci a questa nuova condizione di vita occorre richiamare alla mente la metafora gotica dello “spazio complesso”, in cui la convivenza si dà a partire dal riposizionamento (Michel Foucault, in Jeremy Rifkin, Il Sogno Europeo, pag.268) e i confini si definiscono in quanto “zone di interattività”. La tensione che è necessario manifestare non è quella che muove verso la rappresentazione, il congelamento della realtà nell’estetica di una forma immutabile, al contrario è quella che fa leva sull’espressione, sul dispiegamento di una realtà in cammino, attraverso lo spazio ma anche il tempo. Per questo motivo si auspica una presa di distanza dal modello americano del melting pot spettacolarizzato, in cui la diversità viene integrata in un superiore modello economico che preclude a priori l’uguaglianza, e l’etnicità si iscrive nel territorio formando quartieri-mondi. Oggi la territorialità definita dalle diaspore culturali, siano esse immigrazioni, emigrazioni, spostamenti per motivazioni lavorative o turistiche, delinea scenari che non sono suscettibili di alcuna cristallizzazione identitaria poiché, come osserva Jeremy Rifkin, “essendo vissute contemporaneamente “qui e altrove”, sono legate al tempo, non allo spazio” (Rifkin Jeremy, Il Sogno Europeo, pag.268) e perciò non sono rappresentabili né riconducibili alla geografia.

Questo nuovo concetto può essere compreso osservando il vitalismo confusivo delle metropoli dei Paesi in via di sviluppo, in cui complessi processi di ri-identificazione culturale determinano le condizioni di una realtà frastornante e in fieri. Qui una sorta di “poetica del caos o dell’informe” regola, nonostante l’occidentalizzazione modernista, che seduce tanto quanto infastidisce, la coabitazione di realtà antitetiche a partire dall’abitudine all’uso personalizzato dello spazio. In tutto il “sud” del mondo negli ultimi anni si è assistito a una crescita vertiginosa delle configurazioni urbane. Megalopoli come Il Cairo, Lagos, Johannesburg, metropoli come Città del Capo, Harare, città in estensione come Abidjan, Dakar, Nairobi diventano laboratori della vita del futuro, dove figure sociali nuove, puntando alla rottura delle antiche barriere tra centro e periferia, definiscono un nuovo sentire che apre a prospettive squisitamente postculturali. Teresa Macrì, a questo proposito, nel suo studio sulla nuove forme di artisticità emergenti all’interno di contesti urbani un tempo marginali, sostiene che i luoghi della cultura abbiano subito un displacement, rilocalizzandosi laddove derive sociali e narrazioni fantasmatiche ritagliano interstizi linguistici particolari, e culture apolidi realizzano differenti rappresentazioni della realtà che esulano dalle categorizzazioni euro-occidentali.

Più precisamente sostiene che: “poiché le Postculture si riorganizzano all’interno di sistemi periferici dislocati nel pianeta, dentro un ordine preordinato al cui interno strategie di comunicazione e flussi migratori e diasporici ne dinamizzano l’assetto, la mutazione del sentire diventa irrevocabile. La stessa trasformazione del luogo in cui si vive, con la concentrazione, sempre più massiccia, nelle nuove megalopoli e la predilezione di un’urbanità più consona ai bisogni collettivi, crea un mutamento radicale nella soggettività individuale che altera i parametri di coesistenza territoriale. Da qui nasce la sensibilizzazione verso forme di benessere di massa e di modernizzazione del vivere quotidiano che indirizzano lo spostamento, sensitivo e percettivo, verso nuove raffigurazioni sociali. Lagos, Johannesburg, Città del Messico, Rio de Janeiro rivelano dinamiche di spostamento interno in cui la prospettiva della condizione moderna e la prefigurazione di un benessere massificato collaudano soggettività nuove, proclive alla smaterializzazione del concetto di stanzialità esistenziale, di conflittualità collettive, di marginalizzazione personale. Nuove identità sociali, disarmoniche con lo spazio metropolitano, improvvisano inediti scenari dell’esistente” (Macrì Teresa, Postculture, pag.18-19).

 

Saggio tratto da Extended Mind. Viaggio, comunicazione, moda, città, a cura di Carlotta Petracci, anno 2006. Riflessioni sullo spazio tra realtà, media e virtualità. Parte V.