Presentato alla 13esima edizione della Festa del Cinema di Roma, Kursk di Thomas Vinterberg è un kolossal europeo, che racconta un fatto della Storia recente che ha incendiato l’opinione pubblica, poco dopo l’insediamento di Vladimir Putin.
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Ci sono due metafore, sostiene Giaime Alonge, per comprendere la realtà della guerra e della sua rappresentazione cinematografica: la scacchiera e il labirinto. La prima, rimanda alla visione strategica e unitaria del generale; la seconda, al punto di vista del soldato semplice, immerso nel caos dell’azione e vittima degli eventi. La sua è una guerra sporca, disordinata, tattica, dove regnano paura e orrore. Ricordate il sanguinoso assalto di “Omaha Beach” di Salvate il soldato Ryan di Steven Spielberg? Sebbene Kursk, di Thomas Vinterberg, non sia propriamente un film di guerra, bensì un dramma, tratto dal libro di Robert Moore A Time to Die, che prova a raccontare un fatto della Storia recente che incendiò l’opinione pubblica: la morte dei 118 membri dell’equipaggio del sottomarino russo a propulsione nucleare K-141, avvenuta il 12 agosto del 2000, poco dopo l’insediamento di Vladimir Putin, durante un’esercitazione al largo del Mare di Barents; sebbene il suo impianto sia da kolossal classico, grazie anche all’elegante fotografia di Anthony Dod Mantle, più che sperimentale o capace di restituire una visione frammentaria degli avvenimenti (basti pensare a come le avanguardie storiche siano riuscite a re-immaginare la realtà a partire dall’esperienza o dalla riflessione sulla guerra), i due orizzonti sono presenti, nella contrapposizione tra la tragedia vissuta in prima persona dai marinai e la lenta attivazione dei soccorsi dopo la duplice esplosione, da parte delle alte sfere.
Il regista danese pur facendo tesoro, con qualche omaggio – il formato 4:3 in appoggio al 16:9 e al widescreen, dove la scelta di differenti formati ha una forte valenza narrativa, e l’uso in parte della camera a mano – del suo passato fedele ai principi di Dogma 95, pur continuando a concentrarsi sull’esplorazione delle relazioni di potere all’interno di comunità ristrette, non perde l’occasione, con alle spalle una grande produzione firmata Luc Besson, di lavorare sui sistemi di rappresentazione del genere bellico, riportando in auge, soprattutto nei campi lunghissimi, la visione panottica e panoramica del cinema di D.W. Griffith e della prima metà degli Anni Dieci del Novecento, erede del romanzo – il campo di battaglia in Guerra e pace di Lev Tolstoj, come ne La Certosa di Parma di Stendhal è sempre il luogo dell’incontro tra macrostoria e microstoria – e della pittura ottocentesca.
La storia, che comincia con un festoso matrimonio, ricordando Il cacciatore di Michael Cimino, si sviluppa nell’alternanza tra interno ed esterno: nelle profondità del mare, parte dell’equipaggio, sotto la responsabilità del taciturno capitano Mikhail Kalekov (Matthias Schoenaerts), rimane intrappolato in un settore del gigante della Flotta del Nord, della Marina Militare Russa, lo spettatore segue la disperata agonia con la stessa attenzione che si presta ad un documentario, la fine è certa, ma la tragedia passa dal pendolarismo tra noia e rabbia, desiderio di salvezza e consapevolezza del tutto è perduto; sulla terraferma invece va in scena lo scontro tra potere e gente comune, tra omertà e feroce richiesta di intervento da parte delle mogli, costrette ad affrontare negligenza e burocrazia (il governo russo attese cinque giorni, prima di accettare l’aiuto del governo britannico e norvegese), nella speranza di non perdere i loro uomini.
Del resto è in quelle divise dall’altra parte dei microfoni, a cui vengono lanciate sedie tra urla straziate, che riconosciamo l’architettura collettiva del corpo militare, il feticismo della gerarchia (storicamente e culturalmente, il feticismo dell’uniforme risale al licenzioso cabaret della Repubblica di Weimar e a quelle dell’esercito nazista), la sottomissione del singolo al gruppo (la logica padrone-servo, del “chi controlla chi”, viene esplicitata dal potere simbolico dell’uniforme, dalla corrispondenza tra apparenza e ordine), l’appartenenza ad un sistema di valori che va ben oltre la vita. La sopravvivenza dei ventitrè uomini intrappolati, passa in secondo piano rispetto al braccio di ferro geopolitico, in una Russia che denuncia tutta la sua decadenza, etica e materiale, e il suo aggrapparsi ad un passato di super potenza miseramente cancellato dalla fine della Guerra Fredda.
Recensione pubblicata su Artribune.