Non è l’abito, l’atteggiamento o il sesso, ma solo il desiderio di uscire allo scoperto. Di non avere paura di amare un’altra donna.
Siamo in una piccola soffitta che lei chiama ufficio. Mi offre una Winston ma io non fumo, mi chiede se mi da fastidio e io le dico no, si siede comunque vicino alla finestra. A gambe incrociate sul tavolo, si accende la sigaretta mentre sorseggio una birra gentilmente offerta. Ho perso nello zaino la Moleskine con gli appunti che mi ero preso: nozioni sulle lesbiche, sull’outing che non è uguale al coming out e poi il filo dei miei pensieri si interrompe quando riesco a recuperarla. Ci metto poi troppo a ritrovare il segno. Le pareti sono spoglie e di un color giallo paglierino, poi una scrivania con sopra un computer e un lettino nero per massaggi abbandonato in un angolo. “Dovrei essere felice che ti sei innamorata di una donna?”. Sono passati quattro anni, ma nel ripetere la frase di sua madre, a Michela trema ancora la voce.
Non aveva avuto il coraggio di dire “lesbica”, si era limitata ad un affettuoso “innamorata”. Un pugno allo stomaco. Proprio quando si era guadagnata la sua boccata d’aria fresca, la madre l’aveva messa all’angolo. Mi dice che crescere in una famiglia medio borghese, acculturata e in una grande città, ti aiuta a rendere più facili quei momenti iniziali. Salvo madri o padri, nella sua famiglia come in tante altre, presi dalla paura di ciò che non conoscono. L’incipit promette bene, Michela smette di fumare e per qualche secondo fissa la porta alle mie spalle. Che silenzio e che caldo. Poi riprende, con un cambio di registro che mi spiazza ma che prendo come una benedizione. Mi ricordo della birra, bevo e Michela mi parla della scintilla. Mi dice che è stata la curiosità.
Il movimento omosessuale in una città come Torino assume, consapevolmente, le sembianze di una vera e propria subcultura. Un flusso che passa dalle vie del centro, ti accoglie, ti consola, ti trasporta e ti difende. L’approccio non è stato altro che una continua ricerca sul web di locali, personalità, movimenti e serate. Tutto quello che Michela aveva bisogno di sapere, l’ha trovato sullo schermo del computer. Per farsi riconoscere c’era bisogno di certi vestiti, per emergere di alcune conoscenze, per concludere al meglio la serata dei locali giusti. Nella sua prima notte per sole lesbiche, in un postaccio, come ama ricordare, non è stato l’abito, l’atteggiamento o il sesso: Michela si innamora. Fine. In un mondo che sentiva appartenere ancora ad altri, vinceva lei e basta. Durò sette mesi. E questo naturalmente lo scrivo solo ora. In quella stanzetta gialla, ad ogni suo ricordo, un velo di voyeurismo mi calava sugli occhi e mi tappava le orecchie. Se poi si parla di postacci e ballerine, stavamo dicendo?
Ah sì, il sesso tra ragazze. Anzi no, penso a voce alta. Ok, Michela, dimmi di questa cosa a cui sto pensando. Delle prime domande che si fanno le persone eterosessuali. Della curiosità morbosa. Dovrei essere io a darle una spiegazione, poi lei si sbilancia: “Gli uomini provano sicuramente quella sensazione di abbondanza, vuoi mettere due donne!”. Non ci diamo il tempo per ulteriori riflessioni, ci concediamo una risata sincera e complice. Non serve filosofeggiare. Forse è colpa della sessualità che si fonde con l’identità di un movimento che convive con il luogo comune. Un ampio corredo di immagini stereotipate. Nel porno lesbo le unghie sono troppo lunghe dice lei, ride e torna subito seria. Non vuole che usi il “voi”. È sbagliato.
Il rapporto con la propria intimità è un aspetto da vivere interiormente. Mi dice che esistono le sfumature. Le chiedo allora dove si ferma la comunità e dove inizia il rapporto con se stessi, tutto questo rimane nascosto, l’immagine è quella di un movimento che prende a testate un muro. “È sbagliato andare alla ricerca di un dialogo tra mondo eterosessuale e realtà omosessuale, tutto questo distoglie l’attenzione da un problema più grande: la mancanza del dialogo tra singoli”. Le chiedo dove sbaglia la gente. Mi regala il pezzo mancante. “Le persone sbagliano perché vedono nel movimento omosessuale una lotta fine a se stessa, non si rendono conto che i diritti per cui ci battiamo sono di interesse globale”. Quindi Michela ha trovato me. Se venisse data la possibilità ad ogni persona di esprimere se stessa regalandosi ad un’altro individuo, il quadro sarebbe chiaro. I pezzi uniti, uno alla volta, agganciati stretti. Tendiamo a non impegnarci, mio papà quando ero piccolo faceva i puzzle per me e numerava il retro di ogni pezzo, così mi bastava metterli in ordine. Quello che non mi riusciva però, era di rigirarlo da solo, senza che si rompesse.
Intervista tratta dal magazine Clash or Dialogue? parte del più ampio progetto realizzato in occasione della XV Conferenza Ilga-Europe che si è tenuta a Torino nel 2011.