Per inquadrare i rapporti tra la nostra e le altrui culture, e il ruolo dell’immaginazione nella creazione dei concetti di identità e alterità, occorre partire dal viaggio in qualità di metafora della condizione umana. Esso rappresenta la modalità privilegiata e funzionale alla destrutturazione della mente locale, stimolando una riflessione che, mediante il confronto tra conosciuto e sconosciuto, suggerisce mutazioni relative al significato e allo statuto dell’Essere e dell’Abitare, ponendo le premesse per la deterritorializzazione e per la liberazione dei rapporti sociali dalle certezze, i pregiudizi e gli aspetti normativi che contraddistinguono la condizione sessile. Come nota Eric J. Leed, ne La Mente del Viaggiatore, considerare la società a partire da un’ottica mobile significa scorgerla e viverla nella sua dimensione transitoria e instabile, percependola come una vivace congèrie di strutture di comunicazione e di scambio (Leed Eric J., La Mente del Viaggiatore, pag.30-31), che favoriscono contaminazioni culturali e fluidità identitaria. Considerazione che risente dell’elaborazione concettuale moderna e di uno specifico modo di interpretare il viaggio, attraverso la triade che comprende: partenza, transito e arrivo e il gioco dei ‘rispecchiamenti’.

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Ripercorrendo le trame del pensiero moderno si nota come il problema dell’identità si iscriva in un processo di distanziamento e acquisizione del mondo, che sostituisce la dialogica dell’oralità – col suo “qui” vitale, multisensoriale e intersoggettivo – con la dialettica e la scrittura, introducendo la distinzione tra l’eloquenza, che definisce la condizione di egemonia del Qui, e il silenzio segno di subordinazione dell’Altrove. L’Io sintetico e intuitivo moderno definisce il ruolo storicamente e culturalmente dominante dell’Occidente. Il primato dello sguardo e della scrittura (che solo di recente, a seguito della rivoluzione tecnologica, si sta orientando verso costruzioni testuali polifoniche) ha infatti forgiato un discorso monologico che ha finito col giudicare e spettacolarizzare l’Altro, sottraendolo alla reciprocità della phonè e al ruolo di soggetto. L’Altro, inteso come oggetto, prende forma attraverso i confini etno-territoriali o stato-nazionali, e svolge la funzione di contraltare e “specchio in negativo” di un’identità con vocazione universalista. Nell’ambito del discorso antropologico l’invenzione dell’Altro si può fare risalire all’epoca di Cristoforo Colombo, in cui la novità di territori alieni viene raffrontata e giudicata a partire dal vecchio mondo conosciuto. Ossia viene, più che interpretata e interrogata, trasfigurata a partire dalla pretesa della società occidentale di porsi come umanità di riferimento, unità di misura e metro di giudizio delle altrui culture e società.

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La nascita e lo sviluppo dell’etnografia infatti va di pari passo con le esperienze coloniali e la definizione dei contorni dell’Altro immaginato: all’occorrenza nobile, feroce, pacifico, guerriero, amabile, sgradevole – come nel caso del “buon selvaggio” di Jean-Jacques Rousseau – a cui corrisponde la felicità dello “stato di natura” in opposizione alla degenerazione della Civiltà – o del selvaggio debole e intellettualmente misero di Péron – funzionale alla legittimazione della missione civilizzatrice e dell’impresa coloniale. L’Altro è inteso come oggetto d’esperimento, di valutazione scientifica o estetica, stereotipo culturale collocato entro una scala evolutiva che dallo “stato di natura”, dalla condizione di “barbarie”, progredisce verso la Civiltà. Responsabile di questa operazione di spoliazione dell’alterità è la razionalità moderna con la sua visione autoreferenziale della Storia e della geografia e la sua spinta all’addomesticamento dell’esotico. Josephine Baker ne è l’emblema: africana a Parigi, esotica col suo ghepardo al guinzaglio, erotica e “primitiva” mentre danza nelle Concert Hall a seni nudi. Il suo fascino è quello dell’artefatto ideologico, dell’artificio tout court, che legittima la relazione, posta in evidenza da Clifford Geertz, che riguarda antropologi e turisti in qualità di “mercanti di stupore” (Geertz Clifford, in American Antropologist, pag.275). Reciprocamente influenzatisi nell’habitus dello sguardo dall’esterno, abbracciano una visione spettacolare della cultura, commerciale e consumabile, sino al Postmoderno, con la globalizzazione e l’economia dell’immateriale: del turismo, dei media e delle industrie culturali.

 

Saggio tratto da Extended Mind. Viaggio, comunicazione, moda, città, a cura di Carlotta Petracci, anno 2006. Parte I