Allo sguardo occidentale nutrito dai media – stampa, televisione, cinema – sembra sfuggire non solo il rapporto tra presente e passato, ma anche le distinzioni tra percorsi, derive e approdi del moderno globale. La mancanza di interesse nei confronti delle analisi particolari sottrae legittimità alle motivazioni e alle prospettive dei movimenti, facendo coincidere la nozione di “altro” sempre più con quella di immigrato, rifugiato e accampato; di straniero e minaccia. Questo accade non solo perché è impossibile indagare la complessità delle relazioni planetarie a partire da una prospettiva storica decentrata, ma anche perché ci troviamo per la prima volta a farlo singolarmente. Sradicamento e solitudine sono all’origine della nostra fragilità e inquietudine di fronte alla diversità e spingono verso “assoluti particolari” (Žižek Slavoj, Il Grande Altro, pag.199, con riferimento al ritorno effimero e artificiale del nazionalismo in relazione all’avvento del “mercato universale”. Nazionalismo come risvolto dialettico, non come “diritto all’autonomia nazionale”, alla rivalutazione delle radici etniche, ma come chiusura, negazione dell’altro. Altro che per l’Occidente europeo sono anche gli Stati Uniti: colpevoli della sua acculturazione e della loro irriducibile diversità. USA che seducono e da cui si prendono le distanze, per la comunicazione di massa, l’espansionismo belligerante, la pena di morte, la concorrenza spietata del libero mercato), atteggiamenti intolleranti, sfoghi xenofobici e dinamiche di esclusione.
Come nota Eleonora Fiorani: “quando vengono meno le forme più o meno condivise di umanità, in un contesto di trasformazione degli assetti costituiti o di crisi come quelli che stiamo vivendo, la figura dell’altro si offusca e l’identità si configura come un conflitto e esclusione dell’altro, mentre sparisce l’attitudine a tollerare la differenza. Così oggi assistiamo all’imbizzarrirsi dei processi generatori dell’alterità, che fabbricano l’altro in un’incessante differenziazione produttrice di morte” (Fiorani Eleonora, La Nuova Condizione di Vita, pag.64). La perdita di riferimenti stabili, di solide radici e di assoluti, comportano una nuova condizione di spaesamento “senza rimedio” che, in nome della salvaguardia dell’identità e delle distinzioni, da un lato avvalla posizioni secessioniste e fondamentaliste, dall’altro il labelling (termine utilizzato nella sociologia degli Anni Sessanta per indicare il marchio della squalifica) e la criminalizzazione della povertà e dell’insignificanza. Ciò accade perché l’altro, da tempo relegato a rappresentazioni immutabili, oggi esplode e implode nelle “nostre” società, si diversifica e demoltiplica a tal punto da divenire incontenibile e incomprensibile, ponendoci quotidianamente di fronte ai limiti del “nostro” linguaggio e del “nostro” mondo.
L’altro vicino è l’imprevisto in atto: nuovi modi di essere e operare, opinioni e atteggiamenti dissimili da capire, riflessioni sull’ospitalità, il rigetto e l’esclusione, nudità di fronte alle loro motivazioni. È la marginalità che grida la sua differenza attraverso pratiche impreviste: l’abbigliamento, la capigliatura, l’odore, lo “sporco”, come politica della vergogna (La Cecla Franco, Jet-lag, pag.79), dell’imbarazzo, incapacità di integrazione, di uniformità. Come verità oscena, che vuole essere guardata da lontano, fissata in immagine, nel suo sfoggio aggressivo e che si traduce in un fare comunità alternativo, a suo modo esclusivo. Dai senzatetto agli zingari, molte sono le vesti della crisi e del rigetto della società; le esistenze alternative che si pongono contro, trasversalmente e lontano da una vita scandita dal consumo e che non coglie il valore del dissenso, né del divertimento come presa di distanza ludica ma riflessiva. Disagio, divertimento, dissenso sono tutti modi per presentare altre vie, costruire nuove identità e ripensare la società a partire dalle minoranze, dalle soglie e dalle “periferie” del globale, dai bordi e dagli infinitamente piccoli pixel delle sue immagini patinate.
Sfide lanciate al conformismo e all’uniformità, che oggi si pongono al centro del dibattito sulla città postindustriale e postmoderna in cui principi d’ordine ereditati dalla modernità e nuovi modelli di gestione prospettati dalla globalità muovono insieme verso frammentazione e disintegrazione del tessuto urbano; separazione e segregazione; privatizzazione degli spazi pubblici e degrado della vita comunitaria. Controparte di questo status conflittuale è il richiamo all’integrazione e all’uguaglianza, che a suo modo si segnala per cecità di fronte alla complessità di intrecci planetari che determinano l’attuale crisi della coabitazione cittadina e la proliferazione di confini e posizioni frontaliere. Dal momento in cui l’esclusione trasla da fenomeno interno alle società avanzate (Giddens Anthony e Luhmann Niklas, in Fiorani Eleonora, La Nuova Condizione di Vita, pag.64) a processo selettivo centrale della network society, occorre ripensare il problema della convivenza sforzandosi di comprendere la molteplicità di fattori che hanno storicamente e geograficamente contribuito alla costruzione di ogni esistenza umana nella sua particolarità.
Una scelta su cui è necessario concentrarsi in nome dei cambiamenti che interessano, nell’“era dell’accesso”, il discorso sull’appartenenza e i processi di produzione e riproduzione sociale. In un’epoca scossa da movimenti transnazionali di capitali, idee, persone, merci e immaginari, l’appartenenza, lungi dall’apparire un fatto “naturale” e oggettivo, tende a ricadere sempre più nell’orizzonte della scelta individuale, configurandosi come un’opportunità per ridefinire identità e posizione sociale. Ciò comporta da un lato la messa in discussione dei meccanismi selettivi che facevano capo alla società moderna e allo stato-nazione e dall’altro la proliferazione di comunità centrate su se stesse ma interconnesse, in cui il singolo può rappresentare una minaccia o un’occasione di riflessione e cambiamento. Quando ciò non accade e alla libera espressione della diversità si oppone l’omogeneità di comunità conformiste, ci troviamo di fronte alla chiusura identitaria e all’assenza di prospettive, irrigidimento cognitivo e predisposizione allo scontro. La storia umana è costellata di questo genere di esperienze tanto quanto l’attuale società globale in cui: libero mercato, autonomia di movimento e extraterritorialità del potere marcano conflitti – più o meno visibili – in tutti i territori del pianeta. Conflitti che nascono da crisi identitarie e dal peso dell’esclusione. Non solo sociale, ma anche economica, partecipativa e comunicativa.
Esclusione che non riguarda le pratiche d’ingresso o quelle del rifiuto, ma l’accesso: ossia un meccanismo perverso che offre l’illusione della democraticità dello spazio pubblico entro un’architettura privata, materiale o informatica. L’impossibilità di connessione traccia i confini dell’emarginazione permanente; di un’estraneità che non si iscrive più nella frontiera e nelle sue possibilità di cambiamento, bensì si reitera nell’immagine dell’immobilità, della reclusione e della superfluità. Dell’impossibilità di recupero, riciclo, assimilazione e integrazione. Come accade nelle prigioni, nei ghetti e nei campi profughi
contemporanei: tutti spazi della segregazione, della “migrazione liminale”, in cui la postmodernità relega i “rifiuti” e gli individui in eccesso, che non possono essere scaricati in altre parti del pianeta. Zone di buio in cui non solo i media non entrano, ma anche si perdono. Ossia, privati dei legami e dei fili che trasmettono identità e significati, si viene ridotti alla propria “nuda vita” (Agier Michel, in Bauman Zygmunt, Il Pianeta dei Rifiuti, Alternative, n.1, 2005), resi dipendenti dalle molteplici forme di assistenza che la società globale e quelle locali legittimano e obbligati a una convivenza multietnica senza prospettive.
Saggio tratto da Extended Mind. Viaggio, comunicazione, moda, città, a cura di Carlotta Petracci, anno 2006.