Tematizzare un’esperienza significa sceneggiare una storia da partecipare, ponendo le basi per un legame tra l’impresa, la marca e il consumatore, nell’ottica della personalizzazione di massa o marketing one-to-one. Questo processo è reso possibile dal fatto che le persone non sono più unite sulla base dei legami di sangue, di amicizia o della tradizione, bensì dalla condivisione di interessi e immaginari. Per tematizzare si può ricorrere a qualsiasi immaginario geografico, mitico, storico, legato ai media, futuribile, l’importante è che risulti attraente e interessante, dovendo contribuire ad attribuire specificità, identità e significato al luogo di consumo, sia esso un parco, un aeroporto, un albergo, un ristorante o un punto vendita. L’offerta di entertainment è inoltre fondamentale per produrre l’esperienza. Non è un caso che questo termine oggi funga da desinenza ricorrente in tutte le dimensioni del consumo. Con infotainment (information + entertainment) si pone l’accento sul contenuto informativo e di intrattenimento; con edutainment (education + entertainment) ci si riferisce alle modalità di apprendimento più ludiche; con eatainment (eating + entertainment) si qualificano i luoghi della ristorazione dove l’intrattenimento, la scena, l’esperienza è importante quanto il cibo; con shopainment (shopping + entertainment) o entertailing (entertainment + retailing) si fa riferimento alla dimensione spettacolare della distribuzione monomarca.

Photo: KAL VISUALS.

Ci troviamo di fronte a una messa in scena permanente, che è quella che il Novecento nella sua liquefazione pratica attraverso la teatralizzazione degli oggetti, dei luoghi e dei corpi, aprendo a una nuova riflessione sulla modernità e sul suo carattere incerto in tempi di globalizzazione. Si tratta di un processo di estetizzazione e spettacolarizzazione che dalle avanguardie in poi investe il soggetto e la sua vita nella metropoli. La moda diventa quindi l’osservatorio privilegiato per parlare dei mutamenti del sociale, dell’economico e del culturale. Essa – come osserva Eleonora Fiorani“è insieme business e fonte di autonoma cultura, rappresenta la merce più tipica del nostro tempo, quella che meglio permette di cogliere i caratteri frammentati e tribali dell’attuale mondo anche nei suoi desideri e consumi. E di osservare i mutamenti in atto e le strategie che ridefiniscono il mondo nell’era della comunicazione, dell’acceso, dello scambio” (Fiorani Eleonora, Abitare il Corpo: la Moda, pag.197). Di questo cambiamento è la grande protagonista scenica, ludica, libidinale; poiché è arte e cultura di essere nel corpo, di metterlo in scena, di rappresentarlo, come luogo dell’identità fluida e mutante, della seduzione e dell’osservazione. È il fattore-chiave della comunicazione, della visione pubblica del mondo, del suo carattere effimero e transitorio.

A partire dagli Anni Ottanta la moda fa tutt’uno con la cultura del consumo, diventando essa stessa produttrice autonoma di cultura; sottolineando la transizione dalla società industriale a quella postindustriale, in cui comunicazione e consumo sono inscindibili, dove anzi ad essere consumata è la comunicazione stessa: i suoi immaginari, segni e linguaggi. “La moda è appunto il meccanismo dominante di guida del consumo; è il legame tra produzione, commercio, consumo. In essa si rende visibile la scoperta narcisistica del culto del corpo come oggetto espressivo, per cui abito, pettinatura e trucco diventano segni spettacolari dell’affermazione dell’io, nuova sensibilità estetica del modo di abitare e fare vacanze, estetizzazione dell’esperienza” (Fiorani Eleonora, Abitare il Corpo: la Moda, pag.171). Oggi la moda è il meccanismo guida del consumo: per cui non solo il corpo è oggetto della sua riflessione, ma anche i luoghi e gli spazi della comunicazione. Intrecciata com’è da sempre con tutte le arti e i media – arte, fotografia, cinema, comunicazione, musica – converge con quel complesso e articolato ambito dell’”economia del simbolico” in cui si producono e vendono cultura e creatività; immaginari, traiettorie e mondi.

Photo: Joanna Nix.

Le griffe della moda passano dalla creazione e messa in scena delle collezioni alla realizzazione di ristoranti, spa, villaggi vacanze, fondazioni culturali e eventi a getto continuo, che sospendono la tradizionale logica stagionale, in linea con le nuove dinamiche della comunicazione globale. In particolare l’imponente ristrutturazione in corso, che prevede fusioni e accorpamenti sta ridisegnando la mappa e la geografia mondiale della moda e sta cambiando profondamente il suo statuto, la sua natura e il ruolo dei suoi protagonisti: non più le griffe, ma le holding del lusso che incorporano la logica dei marchi e trasferiscono sul piano della comunicazione mediatica l’intero sistema moda sganciandolo dalla produzione e dai suoi vincoli identitari, culturali e territoriali. La produzione diventa un obiettivo secondario, la logica è quella del dominio del mercato e del modello americano; per cui ad importare non è più il legame dello stile con la persona fisica dello stilista, ma il potere evocativo della marca, la sua visibilità: le narrazioni, metanarrazioni, esperienze e emozioni che quotidianamente la mettono in scena, la pubblicizzano e la comunicano.

New York, United States. Photo: Jesse Ballantyne.

La moda si trasforma in un sistema globale con stili e prodotti globali, si intreccia con la comunicazione, il suo corpo in transito e il consumo di immagini, esperienze, atmosfere e emozioni. A partire dagli Anni Ottanta le aziende della moda cominciano ad affiancare alla produzione la distribuzione diretta dei propri prodotti, attraverso la creazione di superfici di vendita tematiche, chiamate concept store. Questi negozi ammiraglia avevano, e hanno ancora oggi, una funzione principalmente comunicativa, poiché al loro interno viene ricreato interamente il mondo della marca, col suo carico di valori, icone, stilemi e emozioni. Oggi del resto è consapevolezza diffusa nell’ambito del marketing che i messaggi che si riescono a inviare sul punto vendita possono equivalere come efficacia alla più riuscita delle campagne pubblicitarie. La prima azienda che ha creduto nelle potenzialità del concept store è stata quella dello stilista Ralph Lauren, il quale ha scelto, per conferire carattere ai suoi negozi, il tema dell’americanità.

Toronto, Canada. Photo: Oladimeji Odunsi.

Un’americanità che in realtà non è mai esistita, ma che risulta familiare perché è costruita a partire dalle rappresentazioni letterarie e cinematografiche. Non si tratta della ricostruzione di un mondo attendibile o di un preciso periodo storico, quanto piuttosto di un immaginario in grado di evocare un’atmosfera sentita e condivisa, che può fungere da “ancoraggio” in un mondo in sempre più rapida evoluzione. Si tratta come nel caso dei parchi Disney di una ricostruzione letteraria di un luogo; che non può dirsi esplicitamente falsa, quanto piuttosto “altra” rispetto alla realtà, con la quale comunque dialoga. Per il primo concept store di New York Ralph Lauren sceglie un edificio storico del 1895 che, ristrutturato e arredato secondo il gusto dello stilista, appare come un’immenso studio cinematografico, in cui può liberamente consumarsi la messa in scena dello shopping. Del resto come ricorda Amendola, il consumatore si predispone favorevolmente alla capacità dei luoghi di cambiarlo, di fornirgli esperienze che possano renderlo diverso nell’attraversamento (Amendola G., in Fabris Giampaolo, Il Nuovo Consumatore: Verso il Postmoderno, p.204).

Photo: Dorian Hurst.

Per questo motivo tutte le marche globali puntano alla creazione di spazi entro i quali spettacolarizzare la propria filosofia e in cui ci si possa divertire e fare amicizia più che comprare. Come ha insegnato Prada, aprendo nel 2000 a Broadway, l’Epicentro di Rem Koolhaas, l’obiettivo della creazione di queste superfici è quello “di far svanire lo spazio commerciale facendo apparire quello culturale, eliminando l’obbligo di comprare” (La Repubblica, giovedì 9 dicembre 2004, È un Salotto il Negozio del Futuro). Il flagship di Broadway però non è un’esperienza isolata, Prada nel 1999 ha commissionato all’architetto Rem Koolhaas, instaurando una sorta di co-branding di grande efficacia comunicativa, il progetto e la realizzazione di una serie di nuovi negozi in grado di reinventare l’esperienza dello shopping, all’insegna della teatralità, della sensorialità, dell’instabilità e dell’intercambiabilità della comunicazione. Il primo lavoro è stato proprio a New York la riconversione del Guggenheim Museum di SoHo, concepito come un’ambiente che solo all’occorrenza si trasforma in spazio commerciale, diventando uno spazio pubblico “di grande intensità” (Fiorani Eleonora, Abitare il Corpo: la Moda, pag.230).

Photo: Carl Ibale.

Al suo interno elementi mobili su rotaie permettono rapide trasformazioni dello spazio che, pensato come fosse un teatro, dove le sfilate possono trasformarsi in performace totali e l’esposizione dei capi e degli accessori farsi ancora più seducente in relazione all’atmosfera sorprendente dell’intorno, diviene territorio di accadimenti e possibilità extra-ordinarie. Intrattenimento e teatralità si configurano come gli attributi principali delle nuove superfici di vendita, come dimostra anche il Nike Town di Chicago in cui un vestibolo preliminare ricrea una zona di decompressione in cui viene data la possibilità ai clienti di adeguarsi alla velocità dello shopping e un grande orologio troneggia al centro dell’atrio conteggiando alla rovescia il tempo tra una proiezione e l’altra, momento topico di esplosione di suoni, immagini e visioni, tutte connesse al mondo dello sport e dei suoi campioni. Vi sono poi all’interno delle vetrine “tocca e senti”, interattive, per testare i tessuti Nike e i materiali delle suole e i sistemi digitali di scanning a raggi infrarossi con i quali mappare forma e dimensioni dei piedi.

Photo: Nico Marks.

Una volta che si effettua un’acquisto questo passa direttamente dal magazzino, nello scantinato, attraverso tutto il negozio “correndo” in tubi trasparenti, alimentando lo spettacolo e la contemplazione estatica dei visitatori. L’atmosfera, lo spettacolo, che possiede una vita autonoma, diventa premiante di per sé, nonostante contribuisca all’attribuzione di sempre nuovi significati alle merci. Il punto vendita non mette soltanto a disposizione del pubblico dei prodotti, non cerca semplicemente di indurlo all’acquisto con le sofisticate tecniche del merchandising ma diviene esso stesso messaggio, esperienza da acquistare, accesso temporaneo a mondi simulati e stati emotivi alterati. Mondi per cui siamo già “consumatori della nostra vita” (Rifkin Jeremy, L’Era dell’Accesso, pag. 228), selezionatori di ciò che solitari non possiamo più costruire.

 

Saggio tratto da Extended Mind. Viaggio, comunicazione, moda, città, a cura di Carlotta Petracci, anno 2006.  Società globale dell’esperienza, Parte II.