Architettura, design e fiction si mescolano nella pratica di Liam Young, incontrato durante l’edizione 2016 di Transmediale a Berlino. Per una chiacchierata sul futuro della disciplina architettonica e sulla necessità di trasformarla in un medium popolare.
Progettazione e fiction vanno di pari passo nella pratica di Liam Young, “architetto speculativo” di base a Londra e presente alla scorsa edizione di Transmediale a Berlino la performance Hello City!. Gli abbiamo rivolto alcune domande, per comprendere quale futuro aspetta l’architettura, fra tecnologia, droni e fantascienza.
V: Che cosa significa essere uno speculative architect?
LY: È un architetto che non si occupa di architettura in senso fisico. Non costruisce ma immagina nuovi spazi, città e strategie urbane. Principalmente racconta delle storie, utilizzando talvolta le architetture reali per produrle e veicolarle.
V: Quindi come metti in pratica questa speculazione?
LY: Gran parte del mio lavoro si basa sulla produzione cinematografica e sullo storytelling. Gli architetti sono professionisti che si impegnano in opere molto ambiziose, ma hanno un riscontro di pubblico molto settoriale. Eppure tutti viviamo all’interno di case e interagiamo con l’architettura. Quindi è necessario fare diventare quest’ultima più popolare. Per raccontarla meglio attingiamo a diversi media: film, fumetti, animation, storytelling fiction, narrativa. Se guardiamo un film di science fiction, per esempio, non possiamo dimenticare che buona parte di quello che vediamo si fonda su ricerche e progetti che indagano nuove forme urbane. La nostra missione è far incontrare la speculazione architettonica con la cultura popolare e la tecnologia.
V: E qui entra in campo Tomorrow’s Thoughts Today. Giusto?
LY: La mia vita si divide tra la ricerca e Unknown Fields, lo studio che ho fondato a Londra con altri architetti. L’obiettivo principale di ogni mia attività è viaggiare per il mondo, andando alla ricerca di segnali di futuri possibili. William Gibson in Neuromante ha detto una cosa molto importante: il futuro è già tra noi, semplicemente non è equamente distribuito. Per questo bisogna cercarlo, documentandolo, registrandolo e portandolo dove viviamo. Con Tomorrow’s Thougths Today attingiamo a ricerche che provengono da ambiti disparati, dal giornalismo investigativo ai documentari. Estrapoliamo i contenuti e li esageriamo, prefigurando degli scenari futuri sia utopici sia distopici. Questo approccio è molto efficace, perché l’immaginazione solleva delle domande. Vogliamo che quello che vediamo accada oppure no? Ecco che immediatamente iniziamo a riflettere sul presente, su come modificare i nostri comportamenti, le nostre abitudini, gli investimenti. Proiettando il presente nel futuro, creiamo un modello, che grazie alla fiction diventa immediatamente comprensibile.
V: Che relazione mantieni con l’architettura fisica?
LY: Ho iniziato come architetto ma ho capito molto presto che i tempi classici dell’architettura non facevano per me. Erano troppo lenti. Ci volevano dieci anni per costruire una sola opera. Non potevo stare al passo con la tecnologia e con la sua capacità di cambiare l’architettura. Avevo bisogno di più immediatezza e rapidità. Tutto oggi comunica, le nostre relazioni dipendono dalla velocità di connessione. Chi è online su Twitter è altrettanto importante rispetto a chi ci vive accanto. Le tecnologie trasformano radicalmente le architetture fisiche. Indossando un paio di Google Glass, mentre stiamo chiacchierando possiamo guardare dei video su Youtube. Se immaginiamo tre persone in una stanza con altrettanti schermi in cui proiettano ciò che pensano o guardano ciò che vogliono, significa che l’architettura è in grado di comunicare.
V: Come usi la tecnologia per cambiare lo scenario urbano?
LY: Sto indagando l’utilizzo dei droni. Quelli autonomi intendo. Abbiamo fatto una performance al Barbican Centre di Londra, in collaborazione con John Cale dei Velvet Underground, immaginando che i droni potessero essere utilizzati diversamente rispetto alla guerra o allo spionaggio. Abbiamo costruito un network e posizionato degli speaker sopra i droni. Una band suonava sul palco e il suono veniva diffuso dagli speaker, creando un effetto particolarmente immersivo. Uno dei droni aveva la voce di John Cale, un altro trasmetteva il suono della chitarra e così via. L’obiettivo era trasformare i droni da military technology a culture technology.
V: Quali sono i trend più significativi che riguardano le città?
LY: Trovo molto interessante analizzare come la tecnologia sia in grado di cambiarle. Molto di quello che è nascosto dentro ai nostri mobile device potrebbe essere nell’architettura fisica. Se i device si trasformassero in realtà aumentata, le nostre città sarebbero diverse.
V: Cosa succede in Hello City?
LY: Hello City! è una performance narrativa che conduce il pubblico all’interno di un film girato a Detroit. Una città che nella nostra immaginazione è interamente collassata e la cui economia viene riportata in vita dalla Cina. Praticamente una smart city, piena di tecnologia intelligente. La storia segue un gruppo di teenager alla ricerca disperata di un luogo non connesso dove fare un party, un luogo dove ritagliarsi uno spazio di resistenza e libertà. E in una città dove tutto viene monitorato, misurato, osservato, è possibile trovarlo? In questo viaggio della durata di una notte, i ragazzi sono costretti ad hackerare la città, portando le Google Car fuori dalle mappe, inventandosi degli ambiti in grado di oltrepassare gli scanner 3D, sperimentando forme di camouflage che gli permettano di sparire, per sfuggire al controllo delle macchine. Il film sarà finito entro l’estate ed Hello City! è l’opera che racchiude tutte le ricerche preliminari alla sua realizzazione. Hello City! di fatto è essa stessa un viaggio attraverso i luoghi reali che abbiamo visitato e quelli di finzione che esistono solo nel film.
V: Com’è la colonna sonora di Hello City!?
LY: È composta da suoni digitali o che provengono dalla rete e ha una relazione diretta con le immagini e coi luoghi che percorre. È glitchy per esempio quando le immagini sullo schermo hanno dei glitch. Ci sono poi diverse tracce di musicisti della scena techno di Detroit.
V: Perché hai scelto Detroit?
LY: Detroit è una città completamente collassata. Tutta la sua produzione è stata spostata altrove, appare vuota e la sua fama è riconducibile quasi esclusivamente ai tour nelle rovine. La Detroit che ci siamo immaginati invece è una smart city, con le sue nuove controculture. Anche la musica techno, nella sua versione moderna e industriale, viene meno. Abbiamo giocato su questo aspetto di città tutta da rifare, raccontando una storia che si basa su nuove tecnologie, leggere, non più quelle pesanti e meccaniche del cyberpunk.
V: Quanti o quali immaginari fantascientifici hanno influenzato la tua speculazione?
LY: Per me Star Wars non è science fiction ma fantasy. A me piace la critical science fiction. La fantascienza che riguarda il presente, non il futuro. Voglio riflettere sul presente in modo nuovo, non alla 1984 di Orwell, perché quel romanzo parlava di un trend emergente negli Anni Ottanta. Il messaggio di Orwell era: facciamo attenzione, se non ci fermiamo questo sarà il nostro mondo. La fantascienza che invece piace a me è quella che racconta storie che spiegano il presente in cui viviamo, permettendoci di capirlo e di prendere delle decisioni che si collocano all’interno del suo universo, non in quello di un domani che verrà.
Articolo pubblicato su Artribune.