In un mondo che si va sempre più dematerializzando, lo scienziato e bioartista di Montreal, François-Joseph Lapointe, rompe le distanze attraverso una semplice stretta di mano. 1000 Handshakes è un progetto che mappa la costruzione della nostra identità attraverso lo scambio di microbioma. Non siamo solo i nostri geni, ma anche le persone che incontriamo, i luoghi in cui viviamo, il cibo che mangiamo e il sesso che facciamo.

V: Quando e come ha avuto inizio il progetto?

FJL: L’idea mi è venuta due anni fa, mentre stavo facendo una residenza al Medical Museion di Copenhagen. Loro erano interessati agli studi sul microbioma, e visto che il mio background è sia scientifico che artistico, gli ho proposto di fare una perfomance, che prevedesse di scambiare il microbioma attraverso delle strette di mano. Così è nato 1000 Handshakes, un progetto che aveva l’obiettivo di mappare tutte queste interazioni e contaminazioni. Ho iniziato da Copenhagen, poi l’ho fatto in altre città: Montreal, San Francisco e persino in Australia.

1000 Handshakes. Before taking a sample of his palm to verify the contamination. Photo: F-J Lapointe.

V: Che cosa succede esattamente durante questo processo?

FJL: Colleziono dei batteri. Prima di iniziare mi pulisco accuratamente le mani e poi procedo con l’esperimento. Stringere la mano a mille persone diverse significa raccogliere moltissimi batteri, che vengono analizzati a partire dal tasso di accumulo, che cambia in base alla localizzazione geografica. Paragonando, per esempio, l’Australia d’estate con Montreal d’inverno, emerge un dato molto interessante. Contrariamente a quanto potremmo pensare il tasso di batteri è più alto a Montreal, perchè d’inverno le persone indossano i guanti, la loro pelle è calda e bagnata, e nelle loro mani si annidano più batteri.

V: I batteri sono diversi nelle varie parti del mondo?

FJL: Certamente. Anche se ogni individuo ha una sua composizione specifica, che lo distingue dagli altri. Siamo i nostri batteri, ossia tutte le relazioni che riguardano la nostra vita: le persone che incontriamo, i luoghi in cui andiamo, l’ambiente in cui viviamo. I batteri sono parte della nostra identità e noi siamo parte di loro. Attraverso la stretta di mano avviene uno scambio: io consegno una parte della mia identità batterica e gli altri mi danno la loro.

V: Hai detto però che la tua non è solo un’analisi scientifica.

FJL: Io rifletto sull’identità. Nel progetto che ha preceduto 1000 Handshakes ho realizzato delle coreografie basate su delle sequenze del mio dna, dimostrando ciò che ci distingue. Lo stesso ragionamento l’ho traslato sul microbioma, che, a differenza del genoma, non è fisso, ma può cambiare, in funzione delle persone con cui entriamo in contatto, del cibo che mangiamo, del sesso che facciamo. La nostra identità batterica riguarda il concetto di self. Le microbiome selfies che ho creato, confluiscono in una sorta di social network di batteri, dove gli amici sono specie batteriche.

François-Joseph Lapointe.

V: Da una prospettiva sociologica che cosa significa essere battericamente connessi?

FJL: Si tratta di un trasferimento, di un’epidemia. Esattamente come quando vuoi tracciare la diffusione dell’HIV, quello che mappi sono le relazioni delle persone. Fai lo stesso col microbioma, che tra l’altro può aprire uno scenario piuttosto inquietante: quello dello spionaggio. Anche se a me interessano di più altri aspetti, come la paura e la fascinazione che le persone provano nei confronti dei microbi. La nostra società è profondamente germofobica. Quando conduco l’esperimento e sostengo di avere stretto la mano a più di 700 individui, i volti si rabbuiano e io ironicamente consegno un antibatterico. Quello che manca alla nostra cultura è la consapevolezza del funzionamento del corpo, che ha bisogno dei microbi per espletare gran parte delle sue attività: dalla digestione alla protezione contro le malattie. Certamente i microbi possono uccidere, però non hanno una connotazione solo negativa. Attraverso l’arte cerco di educare e comunicare alle persone le ragioni della scienza.

V: In che modo la quantità di batteri entra in relazione con la diversità?

FJL: Maggiore è la diversità più è sano il microbioma. Gli uomini che vivevano nelle foreste avevano un microbioma completamente diverso. Gli antibiotici e le nostre condizioni di vita protette hanno ucciso molte specie di microbioma comportando disagi fisici. È importare ripristinare questa ricchezza e diversità.

V: E se il nostro microbioma si cancellasse?

FJL: Una situazione del genere accade quando prendiamo consistenti dosi di antibiotici. Viene eliminata la diversità e quando i batteri pericolosi tornano, sono più aggressivi. È come la conquista di un pianeta o di un’isola deserta. Dipende se arrivano prima i buoni o i cattivi. Se c’è una sola specie sull’isola il territorio sarà suo, se invece ce ne sono molte, la competizione porterà ad un maggiore equilibrio. Questa suggestione però affascina molto anche me. Ho in mente di fare un nuovo progetto su questo argomento. Voglio andare in Finlandia in pieno inverno, prendere consistenti dosi di antibiotici e immergermi nella neve cercando di uccidere tutto il mio microbioma. Poi voglio mangiare solo probiotics yogurt e vedere cosa succede.

https://www.youtube.com/watch?v=l5DW5SAVu4M

V: Diventerai più ‘sano’ con questo esperimento?

FJL: Non lo so, forse morirò!

V: Quale relazione esiste tra il microbioma e la vita?

FJL: È impossibile separarli. Senza alti tassi di microbioma il corpo non può espletare gran parte delle sue attività. Noi facciamo parte di un super organismo, costituito da molte specie che coesistono. Ogni cosa che facciamo non è una vera decisione, i microbi decidono per noi. Se sentiamo il bisogno di cioccolata, sono i microbi che ce la stanno chiedendo perchè hanno bisogno dei suoi nutrienti e spediscono un messaggio al cervello. Tutti i nostri comportamenti e le nostre azioni dipendono dal microbioma.

V: Che condizioni causano la morte dei microbi?

FJL: L’alto tasso di acidità, il caldo, i raggi UV. Molte malattie autoimmunitarie o della pelle si manifestano in seguito all’assenza di microbi e le incontriamo nelle società moderne e occidentali. Siamo talmente ossessionati dalla pulizia, che ci laviamo in continuazione. In questo modo perdiamo la naturale protezione della pelle. Lo sporco fa parte della vita e di una dimensione tattile, che è quella che propongo nel mio lavoro. L’arte riguarda prevalentemente due sensi: la vista e l’udito. A me invece interessa il tatto, perchè credo che la nostra società, muovendosi verso una consistente dematerializzazione, lo stia annullando. Per questo motivo cerco di rompere le distanze. Vado negli spazi pubblici e stringo le mani alla gente, per ristabilire un contatto autentico. Certo, la reazione tra le persone in un art show o per la strada è molto diversa. In strada è più inaspettato, c’è più timore. Tutto dipende dalla prima persona con cui si entra in relazione. È una sorta di contagio; lo spiegano bene gli antropologi quando affermano che il carisma, il tipo di reazione, del primo, crea un effetto domino su tutti gli altri.

V: Da dove deriva la paura?

FJL: Sicuramente dall’educazione, da come veniamo cresciuti quando siamo bambini. Il mondo viene considerato sempre sporco e i genitori ci segnalano in continuazione situazioni di pericolo. Quando ho fatto l’esperimento in Australia, in strada c’erano molti homeless. Quando mi avvicinavo per stringergli la mano mi ripetevano: “Vattene, sono sporco”. Io invece volevo un contatto fisico con loro, proprio perchè nessuno lo vuole. Trovo che potrebbe essere interessante entrare in relazione con le persone a gruppi: dagli gli homeless ai colletti bianchi di Wall Street, per scoprire qual è la composizione del loro microbioma.

 

1000 Handshakes
di François-Joseph Lapointe
perfomance, 2016
HKW, Berlino
transmediale.de