Sempre fluiamo. Abbandonando o portando con noi la nostra territorialità. O reinventandola al passaggio. Fluiscono i corpi, le idee, i pensieri, le immagini e i luoghi attraverso di loro. Ma non con facilità. Come ci mostrano i corpi e le cose nel loro rapporto col tempo e col mondo. La comunicazione globale ha diffuso l’errata percezione che viaggiare significhi transitare. Condizione che il corpo smentisce ogni qualvolta, sottoposto coercitivamente all’oblio della geografia, si ribella con disagio e i disturbi da jet-lag. Non solo perché il corpo è il tempo, ma anche perché il “nostro” tempo non è quello degli “altri” (La Cecla Franco, Jet-lag, pag.18-20). Il corpo è il residuo che ci ancora alla terra e alla storia, è il primo luogo che abitiamo: in cui nasciamo e moriamo. Si iscrive sempre nello spazio attraverso i luoghi e diviene corpo sociale. Perciò prima dell’industrializzazione del viaggio e della rivoluzione telematica, il corpo era essenzialmente radicato al territorio e ben conosceva e apprezzava i disagi del viaggiatore. Ora che lo spazio liscio della mente corre sulle reti, implode sulla superficie o nelle viscere della terra e diviene materiale quanto un abitacolo di aereo, permettendoci di viaggiare a una velocità che non ci appartiene, il corpo viene costantemente sollecitato e sottoposto a frizioni che lo spaccano, lacerano, divorano e frantumano, mostrando la nuova faccia del presente e forse del futuro.
Nell’impossibilità di adattare, conciliare, tenere insieme desideri, disagi, spazi e tempi differenti si predispone naturalmente alla frattura e alla decostruzione dell’identità (il corpo lacerato è deterritorializzato come le sue molteplici traduzioni spaziali: dai luoghi del consumo, ai paesaggi metropolitani, ai corpi della moda e delle diaspore), vestendo una nuova geografia a mondi sovrapposti. Mentre da un punto di vista teorico si vuole distinguere tra diaspore e nomadismi, la “carne” in viaggio (non a caso William Gibson sottolinea che nel cyberspazio si viaggia con la carne, non solo perché il corpo è innestato, ma anche perché i movimenti che si verificano in questo territorio ex lege hanno delle ricadute territoriali reali. Segnano i corpi e le pratiche di vita. Corpi sottoposti a orari disumani di lavoro, corpi rinchiusi, sfregiati, rapiti, fatti esplodere e che bruciano diventando indistinguibili) ci ricorda che siamo sottoposti tutti allo stesso processo di distruzione; e che rimangono solo le illusioni e i retaggi del pensiero mono-identitario e dualista a resistere all’avanzata del caos e delle moltitudini.
Per comprendere l’attuale “arcipelago dell’io” (Canevacci Massimo, Sincretismi) si deve osservare come vero soggetto in movimento la nuova forma della metropoli della comunicazione, col suo mix ibrido di cultura, consumo e tecnologie; i suoi sensi plurimi; i mutamenti di panorami e le creatività antropofagiche che rimasticano stili, incrociano codici, rigenerano sguardi e sostituiscono al senso civico del “noi” quello attrattivo-repulsivo degli “ii” desideranti. Nuove collettività per cui spazio e tempo traslano dall’oggettività alla soggettività, dalla singolarità alla pluralità, fungendo da riserve narrative a marche globali, consumatori e selves diasporici; analogamente impegnati nel performare la propria ricerca etnografica attraversando fluidità di stili, visioni, linguaggi e metodologie. Metropoli allora come luogo della cross-culture-communication: della liberazione delle “possibili infinite combinazioni in cui attraversamenti, incamminamenti e incroci – interni ed esterni ad ogni soggetto – modificano il sentire interzonale del transito comunicazionale” (Canevacci Massimo, Sincretismi, pag.77-78) promuovendo trasformazioni incomprensibili all’ordine della polis e difficilmente inquadrabili negli schemi etno-nazionali.
La perdita della terra, della dimora e delle proprie origini al suo interno diviene sfida alla coscienza, deriva e forse avventura verso nuove sensibilità. Nonostante sia utile distinguere tra perdite volute o indotte da sovrapposizioni violente, comunque ciò che pare interessante è analizzare le reciproche convivenze all’interno del medesimo spazio, la metropoli-rete-di-reti, in cui vengono meno le “terze vie” e si sferrano attacchi al potere immobilista del localismo e a quello totalizzante del globalismo. Questo è l’orizzonte della convergenza tra diaspora e nomadismo, come processo di evasione dal luogo, non più solo della mente ma anche del corpo. In questo contesto magmatico è difficile distinguere tra percorsi lisci e porosi, poiché essi sempre si incrociano e possono promuovere riflessioni e esiti inaspettati. Difficilmente condivisibili e troppo rigide per la contemporaneità appaiono le posizioni di autori come Zygmunt Bauman e Gilles Deleuze, che sembrano non cogliere la varietà delle relazioni tardo moderne (Giddens Anthony). Turisti e vagabondi non sono la realtà. Il mondo è assai più complesso: non solo a livello di intrecci, ma anche di prospettive.
La comunicazione globale attraverso la musica, lo sport, la moda, il cinema, lo spettacolo, il turismo, ci presenta uno straordinario scenario di corpi diasporici, di rotte e itinerari internazionali, che ispirano quotidianamente, dentro e fuori i confini territoriali, sogni, desideri, movimenti e nuove identità per popolazioni un tempo “periferiche”. Accanto e oltre le tradizionali mobilità transnazionali – composte da espatriati, rifugiati, lavoratori stranieri, comunità in esilio in conseguenza della decolonizzazione, globalizzazione, flessibilità – si aprono possibilità e traiettorie che comportano originali riflessioni sul sé e schiudono prospettive inattese per nuove soggettività non più violentemente sradicate o alienate (Canevacci Massimo, Sincretismi, pag.80). Il transito dalla diaspora alle diaspore indica il difficile, e forse mai realmente compiuto, processo di liberazione dello sguardo decentrato e delle sue molteplici e improvvise variazioni e innovazioni, che si pongono oltre e trasversalmente rispetto all’etnicità, il medesimo e l’identità. Le diaspore sono “betweenness” (Canevacci Massimo, Sincretismi, pag.87), movimenti presenti che entrano ne le storie passate (a lungo ignorate dalla Storia ufficiale) per esplorare conflitti, divergenze e convergenze tra locale, moderno e globale. Di qui la loro attualità, la carica avanguardista e i nuovi sensi e sogni che immettono nel quotidiano attraverso circuiti privilegiati (personaggi dello spettacolo, dello sport, della vita pubblica e artisti) e vie di fuga alternative (web, mezzi di comunicazione dell’immigrazione).
Nonostante la mobilità si ponga come uno dei principali fattori di divaricazione e stratificazione sociale, ciò che va attentamente analizzato sono le relazioni e gli orizzonti della scelta individuale e collettiva che si formano intorno alle nuove e invisibili distanze. Se da un lato è necessario cogliere la polarizzazione e segregazione territoriale che la globalizzazione comporta, dall’altro bisogna riferire di come mondi separati interagiscano tra loro a partire dalla visibilità e dall’immaginazione. Non ci accorgiamo che l’osservare implica sempre un essere osservati, che muta nel tempo. Cambia con l’abitudine, la volontà di essere diversi, la tensione verso la conquista della modernità. L’appropriazione locale dei processi di globalizzazione comporta un ribaltamento delle condizioni iniziali di disidentificazione e la spinta verso nuove forme di identità. Ciò accade sia che si scelga di abbandonare la propria terra, di rimanervi o di andare e tornare. Anzi diciamo piuttosto che un modello sempre più presente nel nuovo ordine transnazionale sembra essere quello del transfuga. Colui che riterritorializza la propria esistenza, che avverte la ristrettezza e l’oppressione del territorio e decide di vivere altrove, con o senza l’ineluttabile senso di colpa per l’abbandono. Colui che si ritrova in un meccanismo necessità-desiderio, integrazione-sradicamento (Macrì Teresa, Postculture, pag.83), predisponendosi a sempre nuove identificazioni.
Che sono possibili, come osserva Arjun Appadurai, grazie ai media elettronici, che oggi forniscono, a chiunque nel quotidiano, nuove e imprescindibili risorse immaginative per la sperimentazione della costruzione del sé (Appadurai Arjun, Modernità in Polvere, pag.17) svincolandola dall’appartenenza culturale territoriale. Pur mantenendo la distanza essi inducono una trasformazione del discorso identitario in relazione alla possibilità di misurarsi con altri mondi – reali, immaginati o fantastici – e di agganciare le proprie vite alla plausibilità degli spettacoli di informazione. Interessante è notare come oggi la mobilità generale sia intimamente connessa al lavoro di riflessione e riposizionamento che la comunicazione globale ha avviato all’interno di tutti i tipi di società. Come questa nuova volontà stia tessendo all’interno delle metropoli contemporanee un mosaico schizofrenico di proiezioni identitarie mai compiute, che si iscrivono in un processo universale di destrutturazione e ristrutturazione dell’esistente già presente nelle culture “altre” a partire dal primo contatto con la modernità.
Modernità che oggi diviene modernity at large secondo la definizione di Arjun Appadurai, ponendosi come presupposto del suo superamento, attraverso l’ingresso e il coinvolgimento di altre voci, di cui non si può più negare l’esistenza, se non attraverso l’esclusione dai circuiti comunicativi. Con ciò non si vuole smentire la presenza di zone di buio e d’ombra dove le reti dell’informazione e della comunicazione globale non entrano, quanto piuttosto riferire di come si trovino modalità sempre più sofisticate per crearne di proprie; articolando in questo modo connessioni impreviste che ridisegnano l’orizzonte spazio-temporale dell’appartenenza individuale e collettiva abbattendo i confini della razza e dell’etnia e pure delle classi. Si tratta di modalità attraverso le quali le popolazioni immigrate trovano vie alternative alla squalifica e alla marginalità, connettendosi non solo coi paesi d’origine, ma anche tra loro: incrociando desiderio e necessità, utopie sociali, politiche e nuove visioni del futuro. Ciò è visibile nelle metropoli quanto nei piccoli centri, dove “sfere pubbliche diasporiche” e comunicazione di massa operano in maniera sinergica comportando deterritorializzazione e organizzazione di nuovi assetti meno regolati, che contrastano con l’onnipresente e vano richiamo all’ordine delle istituzioni pubbliche locali, che si segnalano per cecità, fragilità e impotenza di fronte ai mutamenti che la globalizzazione comporta.
Non siamo più ai tempi della prima modernità: quando stranieri e fuorilegge erano assimilati o espulsi e gli “altri” erano lontani. Ora siamo dentro la deregolamentazione universale, in un mondo estremamente vario e mobile, interconnesso, in cui le basi per l’identità vengono meno e paure, incertezze e idiosincrasie contrastano con l’esigenza di una convivenza civile tra diversi e impediscono di esplorare l’attuale condizione dell’alterità. La quale, una volta perduti i confini e abbandonati i luoghi lontani, diviene irrimediabilmente vicina, mettendoci quotidianamente alla prova. L’alterità è una sfida radicale contro l’istituzionalizzazione della verità e la stasi dell’ordine razionale. Per questo quando non è docile fa paura e viene spinta via e bollata come pura e semplice estraneità; o inciviltà, barbarie, inumanità, etnicità. In buona sostanza come differenza da abolire e fuggire quando, al di là dell’estetizzazione postmoderna (nel caso del turismo tanto quanto degli ethnic business nelle città), si dà come margine di sofferenza, povertà, crisi, ribellione, mancanza di potere e di libertà, smascherando in questo modo le dubbie politiche del multiculturalismo. Che altro non è che una raffinata forma di “razzismo differenzialista” (De Benoist Alain, in Bauman Zygmunt, La Società dell’Incertezza, pag.75) che riconosce, nega e allo stesso tempo vuole la differenza, sulla scia di un’esterofilia misurata, falsamente favorevole alle novità e insensibile alle sottili variazioni delle condizioni umane.
Saggio tratto da Extended Mind. Viaggio, comunicazione, moda, città, a cura di Carlotta Petracci, anno 2006.