Vivere è spaziare: distendersi per iscritto su delle superfici, sottrarle all’anonimato, renderle familiari al corpo, alla mente, al cuore. Ma vivere è anche creare: intersecare piani, delimitare aree, costruire spazi da attraversare, all’interno dei quali “essere con gli altri”. La domus è sempre una chiusura intorno a un’apertura, mai realmente un rifugio in cui si è solo per se stessi. Per questo la città, domus estesa potremmo dire, anche quando si sfrangia in una molteplicità di spazi non permette l’isolamento, nonostante possa rinviare alla solitudine e all’esclusione. Così mentre la modernità, per far fronte a questo problema, ci aveva abituato ad un “sociale” rigidamente normato in cui la cittadinanza veniva contrattata all’interno dello spazio pubblico, ora la postmodernità libera gli spazi e le figure, e con essi una forma di “socialità sotterranea” che esplode in attrazioni e repulsioni “sentimentali” e puntuali (Maffesoli Michel, Il Tempo delle Tribù), che producono squilibrio e dissoluzione.
Non più la moltiplicazione di contenitori, strade, piazze e mercati ognuno con la propria forma e funzione dedicata, ma l’implosione di spazi e frontiere che, sfuggendo a qualsiasi definizione, possono essere raccontati solo a partire da ciò che vi accade. In questi spazi della pausa e nel loro intorno, si sta “a-traverso” ridendo o soffrendo, ma sempre nell’incertezza di passare o scivolare da una condizione all’altra, dal dentro al fuori. Le metropoli contemporanee appaiono sempre più come territori decostruiti, contesti comunicazionali polifonici dove, anziché la produzione, sono importanti la cultura, il consumo e la comunicazione. Attraversate da correnti umane che distruggono di continuo l’ordine del tessuto urbano, sono corpi “nervosi” polarizzati dalla presenza di una molteplicità di centri d’aggregazione in cui soggetti anòmici fanno costantemente esperienza d’inclusione ed esclusione. La loro complessità non può essere mappata, né è più possibile, a seguito della temperie postmoderna, operare una rigida divisone tra spazi pubblici e privati, perché nuove configurazioni, sorgendo veloci ed effimere nel paesaggio, intrecciano queste due coordinate prima rigidamente distinte.
Le trasformazioni in atto, innescate soprattuto dai rapporti che i territori locali intrattengono con i flussi dell’economia globale, presentano scenari in cui si rende visibile un progressivo dissolvimento dello spazio pubblico come spazio civico, ossia luogo di convivenza e di incontro di estranei, che strutturano volontariamente rapporti di scambio e contrattano l’appartenenza sulla base della vicinanza. Le tendenze contemporanee sembrano spingere verso la segmentazione dello spazio, a partire dalla costruzione di edifici destinati alla segregazione degli uomini. Gli spazi di interesse pubblico, che sempre più sfuggono all’ambito della vita localizzata, diventano dominio d’intervento del capitale mobile che, ridisegnandone le sorti, riconsegna ai “locali” luoghi inospitali e respingenti, utili solo all’autocelebrazione del potere delle élite globali. Così è la piazza della Défense a Parigi, descritta più volte da Zygmunt Bauman nei suoi saggi, come luogo che, nel suo fantasmagorico ritiro dietro superfici specchianti, scoraggia la sosta e quasi inibisce il passaggio (Bauman Zygmunt, in Fiorani Eleonora, La Nuova Condizione di Vita, pag.114).
Qui, edifici impervi e imperiosi, in cui finestre e portoni d’ingresso sono stati occultati, immobilizzano la vita dell’intorno, lasciando che schiamazzi e chiacchiericci si spengano dietro lo stupore reverenziale dello sguardo. Queste costruzioni, nonostante stabiliscano delle relazioni complesse e conflittuali con i luoghi fisici nei quali si inseriscono, sono comunque espressione dell’iscrizione territoriale di una comunità che, pur fregiandosi dell’epiteto di “extraterritoriale”, riconosce il valore del processo di semantizzazione dello spazio materiale. Nella propria ricerca di “senso e identità” l’élite globale non può prescindere dal luogo dove vive e lavora, poiché è in esso che si iscrivono aspirazioni e desideri che ancora una volta riferiscono dell’importanza delle relazioni di “vicinato” che si costruiscono all’interno del territorio. La possibilità di “vagabondare” nel cyberspazio sembra non escludere la consapevolezza della necessità dell’ancoraggio ad uno spazio fisico in cui “l’esperienza umana si forma, si accumula e viene condivisa, e il suo senso viene elaborato, assimilato e negoziato” (Bauman Zyngmunt, Fiducia e Paura nella Città, pag.21).
Saggio tratto da Extended Mind. Viaggio, comunicazione, moda, città, a cura di Carlotta Petracci, anno 2006.