Bambole e carretti, giocattoli e crocifissi, urla silenziose e disumane, fari puntati nella notte che preludono alla tragedia, corpi di donna ridotti a mero oggetto di piacere. L’“arte della repulsione” di Edward Kienholz va in scena alla Fondazione Prada, con Five Car Stud, fino al 31 dicembre, una mostra dalla bellezza diabolica, a cura di Germano Celant.
Scene di morte, guerra, sesso, violenza sulle donne, intolleranza religiosa e razzismo. Che cosa significa essere americano? Percorrendo la mostra Five Car Stud, questa domanda riemerge come un incubo rimosso. La forza espressiva e la carica simbolica dei tableaux e degli enviromental assemblage di Edward Kienholz arrivano dritte allo stomaco. Voyerismo e repulsione sono i sentimenti ricorrenti, dietro ai quali lo spettatore, ancora oggi, riconosce un forte e trasgressivo impegno sociale e politico. Erano gli Anni Sessanta quando la Pop Art rappresentava il movimento e il volto dell’intelligentsia newyorkese. A quei tempi Kienholz si era già avvicinato ad artisti e personaggi radicali. Nel 1956 aveva fondato la NOW Gallery e l’anno seguente, insieme al critico Walter Hopps, la Ferus Gallery. È nella sua duplice condizione di outsider – da un lato nato in una famiglia di agricoltori dell’estremo nord-ovest degli Stati Uniti, dall’altro terribilmente povero e in aperto contrasto con i valori dominanti, della già citata Pop Art, del Minimalismo e dell’Espressionismo astratto – però che dobbiamo leggere l’ambiguità metaforica, il carattere inventivo e punitivo delle sue opere.
I Concept Tableaux non sono altro che sceneggiature originali, che Kienholz vendeva ai collezionisti quando non aveva le risorse per realizzarle. Talvolta vendeva anche il suo lavoro a un costo orario, esattamente come un falegname, un carpentiere, un elettricista, un idraulico. L’arte interpretata come un impegno fisico e maschile, l’aderenza ai valori della working class, la predilezione per l’indagine del lato oscuro e patologico della cultura americana, la sua mentalità rurale, la sua ferrea moralità lo hanno spinto a interpretare con ferocia e crudeltà il conflitto tra Bene e Male, rifiutando ogni distanza intellettuale. Come sottolinea Germano Celant: «Kienholz non tende a sublimare le bassezze e la tragicità del vivere, le condizioni di solitudine e di trivialità, ma le usa come strumenti per far risplendere l’universo basso e popolare, dove il macilento e lo sporco, il perverso e il lurido, rappresentano una bellezza nuova e sorprendente». Ed è in quella resina che cola, ricoprendo volti, oggetti, manichini, automobili, che si soffermano gli occhi, trafitti da un buio viscerale e malinconico, che emana dalle opere. Jody Jody Jody è la menzogna di un’infanzia abbandonata sull’autostrada nella riproduzione maniacale di un fatto di cronaca ed è anche l’ultima opera a cui Kienholz e la moglie Nancy Reddin lavorano insieme, prima della sua morte. Una scena di una solitudine immensa, intrappolata in quella piccola mano aggrappata ad una rete malconcia, oltre la quale il mondo è una presenza sfuggente e illusoria.
Il suo pragmatico senso di giustizia unito alla ricerca del “cattivo gusto”, il suo immaginario folk e grottesco, la sua radicale blasfemia lo hanno condotto a realizzare uno dei ritratti più illuminanti e violenti della vita Americana. Five Car Stud, l’installazione che dà il titolo alla mostra, è la ricostruzione “cinematografica” di una scena di odio razziale raccapricciante. Nell’ala sud della Fondazione Prada veniamo catapultati in uno dei luoghi dell’immaginario a stelle e strisce più inquietanti: il bosco, dove sesso, sangue e isolamento transitano dallo schermo all’inconscio collettivo. Le tenebre, illuminate solo da fari di automobili disposte in “girotondo”. Al centro un afroamericano riverso a terra, immobilizzato da cinque uomini bianchi col volto coperto da maschere di Halloween, uno di loro sta per evirarlo, mentre un sesto uomo armato di fucile sorveglia la situazione, tenendo a bada la donna bianca che si era appartata con la vittima, obbligandola ad assistere sconvolta. Si tratta di una “castrazione sociale”, dove l’abuso della dignità diventa una smorfia mostruosa di terrore e rabbia nel doppio volto dell’uomo di colore, lacerato e rassegnato allo stesso tempo. Il suo busto sventrato è rappresentato da una tanica di benzina, in cui galleggiano sei lettere fluorescenti che formano la parola nigger. Non c’è speranza, l’orrore ci viene scaraventato in faccia, in una rivoltante accusa della bestialità umana.
Articolo pubblicato su Espoarte.
Five Car Stud
a cura di Germano Celant
18 maggio – 31 dicembre 2016
fondazioneprada.org