In occasione della mostra Archivio Contemporaneo, curata da Visioni Parallele, all’interno del Padiglione 9b del Mattatoio di Roma, abbiamo incontrato Francesco D’abbraccio che, dopo l’esperienza di Aucan, ci ha raccontato di Lorem, il suo nuovo progetto audiovisivo e multidisciplinare, dove la musica continua a giocare un ruolo chiave. A partire da Arc, l’installazione presente in mostra, e dal nuovo album Time Coils, da cui ha preso forma anche la live perfomance del 27 aprile, gli abbiamo domandato che cosa significhi avere uno sguardo contemporaneo sulla tecnologia e sull’arte. Sono emersi spunti molto originali.
V: Dopo l’esperienza di Aucan, Lorem è il tuo nuovo progetto musicale. Com’è nato e perché?
Francesco D’Abbraccio: Lorem è un progetto audiovisivo e multidisciplinare, ma la musica continua a ricoprire un ruolo centrale, come all’inizio. Dopo l’esperienza della band ho sentito l’esigenza di trovare uno spazio in cui far convergere diverse urgenze, che si erano manifestate attraverso esperienze disparate, come quella di Krisis Publishing, dove la ricerca si muoveva più in ambito teorico e visivo. Non è un caso che il primo album, Adversarial Feelings, oltre a tradursi attraverso il formato video, comprendesse anche un libro. Forse anche avvicinarmi al machine learning mi ha consentito di esprimermi in modo più organico, perché ragionare a partire dai dati permette di sconfinare da un medium all’altro in maniera molto naturale.
V: Come è avvenuto il passaggio da un contesto musicale ad uno artistico?
F: Inizialmente, anche se mi occupavo di progetti audiovisivi, i miei contributi trovavano spazio attraverso i canali vicini al mondo della musica, in cui c’era un nascente interesse per l’audiovisivo, come NTS Radio o Boiler Room 4:3. Un momento importante è stata la chiamata inaspettata da parte dello Sheffield International Documentary Festival, in cui proprio Adversarial Feelings veniva contestualizzato in maniera completamente nuova. Successivamente, complice la pandemia, ho cominciato a immaginare progetti dalla forte componente narrativa, che potessero essere rilasciati e distribuiti attraverso i canali dell’arte e dei nuovi media.
https://www.youtube.com/watch?v=-2zpdaqmuV8
V: Hai affermato che l’identità di Lorem non si esprime esclusivamente attraverso la tua individualità ma che può incorporare quella di altre persone, divenendo liquida. Mettendo in crisi il concetto di autorialità in senso stretto. In che modo hai maturato questa visione?
F: Lorem è un progetto ibrido, la cui identità si muove tra una dimensione individuale e collettiva. Le mie influenze vanno da Luther Blisset a Stewart Home, che hanno lavorato sul concetto di multiple name, creando delle identità aperte di cui le persone potessero appropriarsi, pur osservando una serie di regole. A seconda del tipo di progetto, gli artisti che coinvolgo aggiungono un pezzetto della loro identità a quella di Lorem, che si esprime più come un coro rispetto ad una singola voce. Trovo che ogni soggettività sia debitrice di una costellazione di riferimenti e connessioni che consentono, soprattutto oggi, di non interpretare l’autorialità come l’espressione di qualcosa che dall’interno si muove verso l’interno, di un’ispirazione che viene dal nulla o di qualcosa di autentico e puntiforme. Mi piace l’idea di una prospettiva ecologica, in cui ciò che siamo è dato dall’intersezione di una serie di relazioni che intratteniamo col mondo esterno.
V: Così anche il concetto di originale viene destituito di importanza…
F: Come dicevo Stewart Home è un riferimento fondamentale per me ed è anche il fondatore del Plagiarismo. In un’intervista, che abbiamo realizzato con Krisis Publishing nel 2009, lui affermava in maniera provocatoria che all’interno della nostra cultura ci sia la tendenza a sopravvalutare la genialità individuale, sostenendo che lo stesso Shakespeare, considerato un grande inventore a livello linguistico, fosse debitore di tutte le generazioni di parlanti, non solo scrittori o artisti, che gli hanno consegnato una lingua attraverso cui potersi esprimere.
V: La solitudine del genio e il rapporto originale e copia sono alla base della nostra cultura. Questo dualismo decade completamente?
F: Credo fosse già decaduto molto tempo fa. Il rapporto tra originale e copia è qualcosa di problematico almeno dalla nascita della fotografia. Tutti conosciamo il lavoro di Walter Benjamin e le riflessioni sull’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Già allora questo dualismo era stato messo in crisi a livello teorico, ma anche dalle tecnologie che avevano contribuito a problematizzarlo. Ritengo che il concetto di originale sia divenuto popolare proprio in virtù della visione individualistica che ho appena descritto.
V: Il titolo del tuo ultimo disco, Time Coils, richiama una riflessione sul tempo. Sul piano teorico qual è la tua concezione?
F: Il tempo è il tema chiave dell’album. In particolare c’è un riferimento esplicito, che emerge nella traccia At the wrong speed, al romanzo Jerusalem di Alan Moore, che mi ha affascinato molto. Nel racconto viene presentato questo spazio multidimensionale, all’interno del quale il tempo assume una dimensione essa stessa spaziale. Per cui i personaggi, che si trovano fuori dalla linearità, hanno la possibilità di percepire e vedere diverse epoche che coesistono. In questo caotico sovrapporsi di periodi storici, che vanno dall’età pre-romana alla tarda modernità, non si parla più di una narrazione diacronica, ma viene posta la questione secondo cui ciascun momento della nostra esistenza ha la possibilità di ripetersi all’infinito, in uno spazio altro rispetto ai successivi. Come se la nostra esperienza del mondo fosse una delle possibili sequenze. Ragionare dentro a questo tempo-spazio multidimensionale consente di relativizzare le nostre certezze e i nostri punti di vista.
V: Non si parla quindi di viaggi nel tempo bensì di una visione per cui tutto è compresente e contemporaneo?
F: Esattamente. Esistono dei momenti storici che più di altri risuonano come immediatamente connessi tra loro. Si tratta di fasi di instabilità, come quella attuale legata all’emersione dell’Intelligenza Artificiale, in cui si aprono delle possibilità, che purtroppo sono destinate a ridursi perché i linguaggi tendono a codificarsi in uno dominante, come sta succedendo nell’interpretare l’AI come strumento generativo.
V: Concretamente queste speculazioni sul tempo che forma prendono nell’album?
F: Questa visione influenza l’album da un punto di vista concettuale, tecnico ed evocativo. Mi piace che il rumore e il suono degli strumenti analogici registrati su nastro entri in dialogo con il glitch e con l’errore delle macchine, confondendosi. Trovo che sia una suggestione molto contemporanea, nella misura in cui non esprime una voce che immagina un futuro lontano ma che al contrario fa convergere suoni e fonti che appartengono a epoche diverse. Nel disco ci sono campioni che vengono dai primi cartoni animati di Walt Disney rimasticati dalle reti neurali, nei data set delle voci ci sono voci che vengono da vecchi acappella sperimentali di rap americano, ci sono suoni che appartengono a universi molto lontani fra di loro. Mi piace farli coesistere in una forma liquida, che non è un semplice collage di frammenti disparati.
https://www.youtube.com/watch?v=AE-QPXGjpXQ
V: In che modo hai usato il machine learning per produrlo?
F: Non utilizzo il machine learning (o Intelligenza Artificiale) in maniera generativa bensì come strumento di trasformazione. Faccio riferimento all’idea e alla pratica dell’Ipercollage, coniata da Jason Bailey, cercando di ibridare strumenti, fonti sonore e campioni, osservando l’interpolazione che si crea tra loro. Mi interessa l’analisi degli interstizi tra le cose. Per lavorare sulla voce per esempio sono partito da voci diverse, prendendo le caratteristiche timbriche di ciascuna di esse, per ottenere una voce nuova, che non è un copia e incolla delle precedenti e neanche qualcosa che viene generato da zero. É in relazione con ciascuna di esse, ma non si risolve in nessuna di loro né in un loro collage. Oppure posso immaginare uno strumento, a metà strada tra una batteria e una chitarra, e che quindi ha il suono e una ritmica tipica di una percussione ma ha delle risonanze armoniche che vengono da una chitarra. Questo è il modo in cui ho utilizzato il machine learning, in relazione al discorso sul tempo che facevo prima.
V: L’output non lo genera la macchina?
F: No, lo genero io a partire dallo spazio multidimensionale che la macchina crea. Anche in questo senso c’è una connessione col discorso portato avanti da Alan Moore. Ciò che la macchina apprende viene immagazzinato dentro a uno spazio latente, in cui ci sono tutte le possibili caratteristiche che, per esempio, la voce può avere a partire da tutte le voci presenti nel data set. A questo punto posso selezionare dei punti nello spazio latente e scegliere un timbro preciso, utilizzando la mia voce come trigger per sovrapporre il timbro selezionato.
V: L’ipercollage in cosa si differenzia dal collage tradizionale?
F: La prima differenza è formale. Mentre nel collage tradizionale i frammenti del lavoro finale conservano una traccia diretta dell’immagine o del medium da cui provengono, nell’ipercollage questa relazione si perde completamente. Il motivo per cui i riferimenti si perdono rientra nella seconda caratteristica dell’ipercollage, che viene realizzato ricorrendo ad una serie di tecniche vicine al mondo della statistica. Interpolazione, estrapolazione, domain change e altre operazioni permettono di estrarre e ibridare pattern presenti nei lavori a cui si attinge, riconfigurandoli in maniera nuova, dando luogo ad output inediti.
V: Quindi stiamo sempre parlando di dati?
F: Sì, diciamo che in questo caso quando parlo di dati intendo qualunque forma di archivio, che sia ordinato in modo da poter essere analizzato da questi strumenti.
V: L’album è stato prodotto esclusivamente ricorrendo al machine learning o anche attraverso altre tecniche?
F: Ho usato tante tecniche diverse. Ho lavorato con strumenti analogici, con chitarre, con batterie, con synth, ricorro spesso ai campionatori e tendo a ricampionare costantemente i miei pezzi, che vengono digeriti e riemergono in forme differenti. Il machine learning è una delle tecniche che utilizzo ma la direzione preponderante è quella di mischiare le tecnologie.
V: Però sotto a questa complessità sonora ci sono dei riferimenti chiari che un orecchio attento è in grado di cogliere…
F: Sicuramente sì, sono cresciuto ascoltando post-hardcore, noise, dubstep, bass music e free tekno, reference presenti sia in questo che in altri lavori. Inoltre in Time Coils la bass music entra in dialogo con la dimensione della voce, quindi anche col mondo della cultura hip hop e del rap. Oltre a questi riferimenti va citata l’estetica glitch e digitale.
V: Che ruolo riveste la voce e perché introdurla?
F: Penso che la voce sia lo strumento più diretto e ancestrale. Mi interessava esplorarla per questo motivo e anche perché l’elemento narrativo, come ho detto, è diventato parte integrante dell’identità di Lorem. La voce si presta a raccontare in maniera evocativa e viscerale delle brevi “storie”, per cui il lavoro sui testi è ugualmente importante.
V: I testi raccontano qualcosa?
F: I testi non raccontano qualcosa in senso stretto però evocano dei mondi e dei luoghi. Per esempio Jerusalem di Alan Moore rientra nei data set che ho utilizzato per scrivere i testi. Altri autori che ho incluso sono Thomas Pynchon, Kafka e China Miéville. Diciamo che i riferimenti vengono dalla letteratura weird o da quella che mi piace, che poi traduco nella forma dello spoken word, che è più semplice e vicina al mondo del rap.
V: Arc è l’istallazione inclusa nella mostra Archivio Contemporaneo, curata da Visioni Parallele, all’interno del padiglione 9b del Mattatoio di Roma, che concretizza questa tensione narrativa che ha permeato il tuo lavoro per alcuni anni. Ma non è la prima…
F: Il primo lavoro in questa direzione è stato Distrust Everything, che risale al 2021 e all’incontro con l’artista americano Mirek Hardiker, conosciuto online durante la pandemia, che per ventun anni ha raccolto le trascrizioni dei suoi sogni, dando corpo a un grande archivio testuale, che mi ha passato per utilizzarlo come data set per il machine learning. Lo scopo era generare la sceneggiatura di un nuovo sogno a partire da un’esperienza traumatica centrale nella vita di Mirek, quindi anche nella sua attività onirica, che coincide con la morte della madre avvenuta quando aveva diciassette anni. Sono partito dalla selezione di tre archetipi: la madre, il fanciullo (che sarebbe lui), il fuorilegge, ossia l’uomo alla guida dell’automobile che l’ha investita, ricavando un’installazione che è una sublimazione di quella perdita. A partire da questa esperienza, che consiste in un lavoro a quattro canali, che si presenta nella forma di una camera immersiva, ho cominciato ad approfondire gli stati di coscienza e la scrittura.
V: E qui arriviamo ad Arc…
F: Esattamente. Arc, che nel nome richiama sia l’idea di arca che di archivio, parte da questo grande data set di sogni a cui è stato aggiunto un ulteriore archivio di testi che descrivono stati di coscienza di altre persone. Utilizza un sistema di generazione dei testi che, come in Adversarial Feelings, mette in relazione stati di coscienza che sono in contraddizione tra loro, dando luogo a sessanta visualizzazioni che si rifanno a venti coppie di emozioni apparentemente contrastanti. Mi pare che risuonino con le emozioni che proviamo oggi, in cui la velocità e la complessità della nostra esperienza mettono il soggetto al centro di tensioni divergenti.
V: A fronte delle grandi preoccupazioni che interessano l’avanzata dell’AI qual è la tua posizione?
F: Credo che molti problemi legati all’uso dell’AI nascano proprio dall’immaginario che abbiamo prodotto intorno al tema. La mia idea di AI si avvicina di più a quella di un cannocchiale o di un microscopio, che anziché muoversi in ambito ottico si muove in quello della conoscenza, funzionando come uno strumento che svolge una funzione di estrazione di pattern a partire da grossi archivi di dati. La visione di una Intelligenza Artificiale, intesa come uomo o individualità artificiale senziente e autonoma è piuttosto problematica, perché tende a nascondere le questioni politiche legate ai dati, ai metodi con cui vengono collezionati e alle finalità con cui vengono utilizzati, influenzando profondamente le nostre vite.