Su Apple Tv+ c’è un documentario imperdibile per gli amanti della musica. Si tratta di Louis Armstrong: Black & Blues, del poliedrico produttore televisivo, scrittore, regista, musicista, artista, curatore, nonché esponente autorevole della cultura hip hop e della graffiti art (da quando nel 1988, da adolescente, pubblicò Graphic Scenes & Xplicit Language, una delle prime fanzine dedicate a questa forma d’arte), Sacha Jenkins, già noto internazionalmente per la serie Wu-Tang Clan: Of Mics and Men. Un documentario classico ma intimo, una ricognizione che si pone prima di tutto l’obiettivo di far conoscere l’uomo dietro alla leggenda, grazie a filmati di archivio e registrazioni casalinghe mai ascoltate prima, e conversazioni personali inedite. Per meglio comprendere il senso e il valore della sua vita e della sua musica, il suo autore si è domandato cosa si nascondesse dietro allo spettacolo, dietro a quella maschera sorridente, dietro a quel modo sofisticato di navigare il proprio tempo flirtando con uomini e forze pericolose. Abbiamo avuto l’occasione di chiacchierare con Sacha, a proposito di questa sua ultima fatica, approfondendo i temi dell’identità e della razza, e problematizzando una percezione della figura di Louis Armostrong nota all’interno della comunità nera. È stato o no un Uncle Tom?
V: Louis Armstrong è considerato una leggenda, ma all’interno della comunità nera è stato a lungo percepito in maniera contraddittoria. C’è una “fazione” che gli imputa di essersi venduto al pubblico bianco e al capitalismo durante la sua carriera. Che cosa ne pensi? Nel documentario mi pare tu abbia cercato di far luce su questo aspetto.
SJ: Certamente. Ho ritenuto importante, prima di tutto, prendere in considerazione il mondo nel quale ha vissuto. Per avere successo è stato costretto a “flirtare” con più contesti e personaggi. Riuscire a suonare in luoghi ritenuti fino ad allora inavvicinabili per le persone di colore non è stato semplice. Non parlo di compromessi, ma di come lui abbia saputo navigare il confine (e l’opposizione) tra la cultura bianca e quella nera. Se non l’avesse fatto forse Jay-Z non avrebbe mai avuto la possibilità di salire su un palco davanti a un pubblico bianco. Non credo che “venduto” sia la parola giusta per comprendere il personaggio e la sua arte. È riuscito a capire l’importanza della sua musica e a sviluppare un modo molto sofisticato di condividerla con un pubblico più ampio possibile. Cosa c’è di sbagliato in questo?
V: Nulla, ma molte persone lo hanno considerato compiacente verso il pubblico e la cultura bianca, in una contesto culturale fortemente conflittuale.
SJ: Lo capisco. Chi, per esempio, è cresciuto con l’hip hop, con i Public Enemy, non ha una conoscenza approfondita della sua figura e della sua storia. Anch’io inizialmente avvertivo questa sorta di opacità in lui, mi domandavo perché sorridesse tutto il tempo. Perché avesse fatto certe scelte. Grazie a questo lavoro ho capito che non cercava di compiacere nessuno, era semplicemente sé stesso.
V: Quando ho visto il documentario ho compreso meglio l’artista e il suo comportamento sul palco. Indossava una sorta di “maschera comica” che lo aiutava ad essere ascoltato da più persone.
SJ: Possiamo definirla sopravvivenza. Se non l’avesse fatto, se fosse nato per esempio nel 1925 come Malcom X, sarebbe stato ucciso. Armstrong nella sua vita è entrato in relazione con i gangster italiani, si è confrontato con forze molto pericolose. Ha dovuto trovare un modo per potersi esprimere in quel mondo. Non stava diffondendo valori vuoti, ha compiuto questa scelte in nome della sua arte.
V: In che modo hai utilizzato le registrazioni private? Credo abbiano conferito al documentario un aspetto molto intimo.
SJ: Grazie alle registrazioni abbiamo avuto la possibilità di raccontare la storia di Louis attraverso le sue parole, cercando il più possibile di svelarne il lato umano, sottraendolo alla leggenda. Abbiamo mostrato la sua imperfezione, la sua vulnerabilità, come si sentisse ad essere nero, come percepisse la maniera in cui veniva trattato. Nelle registrazioni ci sono emozioni, parole, pensieri che non condivideva col pubblico, che erano parte della sua vita privata. Credo che sia stato capace di affermare e raccontare molto di più di ciò per cui tutti lo conosciamo o per cui viene ricordato, consentendo ad altre persone, come me, di avere un futuro.
V: Pensi di aver avuto un approccio “diaristico” alla storia?
SJ: Ho voluto raccontare una storia americana, che tutti potessero guardare, ma allo stesso tempo nel documentario sono presenti messaggi rivolti alle persone di colore. Come dicevamo prima molti pensano che Armstrong si sia venduto, che sia stato una sorta di Zio Tom. Quando sono entrato in profondità nella sua vita ho cambiato la mia opinione, e anche altre persone mi hanno confidato di aver processato la sua figura in maniera differente. Sicuramente all’interno della cultura bianca non c’è l’interesse ad argomentare questa posizione. Armstrong è uno Zio Tom oppure no? Dare una risposta, o provare a sviscerare questa domanda, è l’intento che questo documentario si è posto nei confronti della comunità nera, con lo scopo di suggerire una comprensione più sfaccettata della sua figura e del suo sentire.
V: Perché hai coinvolto Nas nella lettura dei suoi diari? Intravedi una relazione tra loro o c’è un’altra motivazione?
SJ: Nas e io siamo cresciuti insieme. Louis Armstrong mi riporta alla memoria molte persone come lui, dotate di un grande talento. Possiamo dire che la sua musica, la sua arte fossero tutto ciò che avesse. Quando ho raccontato a Nas che stavo facendo questo documentario lui mi ha detto che la sua canzone preferita era What A Wonderful World. Ho capito che aveva compreso immediatamente il personaggio e il mio punto di vista. Così gli ho chiesto di leggere i suoi diari. Ha una voce molto riconoscibile e suo padre è stato un musicista jazz. Mi è sembrata una scelta naturale.
V: Grazie al documentario scopriamo che Louis Armstrong cambiò per sempre il modo di cantare nel mondo, non solo degli artisti di colore. In che modo esattamente?
SJ: Penso sia stato capace di veicolare più emozione. Prima di lui il modo di cantare era più controllato. Vocalmente ha introdotto l’imprevedibilità. Non avevi mai la certezza di cosa stesse facendo, o dove sarebbe andato. Una caratteristica che ha cambiato per sempre la musica popolare e il modo di farla.
V: Dal punto di vista del suono invece che innovazioni ha introdotto? Si parla di rottura dell’armonia e del fatto che abbia intrapreso una direzione più ritmica, più vicina a quella della musica nera.
SJ: In termini di stile direi di sì. Nel documentario c’è una parte dedicata ad un pellegrinaggio in Africa. L’obiettivo è stato mostrare le radici della cultura musicale nera. Armstrong crebbe a New Orleans, venendo influenzato da tutto ciò che aveva intorno, ossia dalla cultura africana, che era presente lì. Nel raccontare la sua storia ho cercato di mostrare questa connessione, ovvero come lui sia stato capace di fare una musica che parlasse e riflettesse queste radici.
V: È stato un simbolo di cambiamento. Pensi ci sia ancora bisogno di figure come la sua, con quel tipo di personalità e valori?
SJ: Le persone come lui sono rare. Oggi non è facile permeare il proprio lavoro con la politica. Bisogna essere molto coraggiosi. Per questo penso che più che venduto sia stato un uomo e un artista molto coraggioso.
V: Parliamo della selezione musicale. Immagino non sia stato semplice, anzi sia stato un lavoro di grande responsabilità, scegliere le canzoni deputate a rappresentare e rileggere la figura di Armstrong. Quali criteri hai adottato?
SJ: Il titolo del documentario è Black & Blues, quindi la selezione ricade entro quel repertorio, anche se l’obiettivo era esplorare, fare una ricognizione su temi come l’identità, la razza e di come lui si sentisse ad essere nero. Mi è capitato di leggere una recensione dove l’autore sosteneva che dal punto di vista musicale il documentario fosse una delusione, mancando di analisi. Personalmente ritengo che non si possa analizzare la musica di Armstrong prima di aver compreso chi fosse realmente. La mia missione è stata parlare prima di tutto dell’uomo.