Oggi l’arte contemporanea ha nuovi campi di indagine rispetto a quelli consueti. L’oggetto fisico è una delle tante declinazioni. Il corpo o il suono, decisamente più immateriale, rappresentano nuove sfide. La musica in particolare sembra lentamente smarcarsi dal ruolo ancillare in cui la sfera artistico-culturale l’ha spesso relegata. Musica come accompagnamento di altre forme artistiche o, peggio, come mero intrattenimento. Alla luce di queste considerazioni la sezione Musica da Camera del MACRO di Roma, rubrica fissa e coraggiosa, parte del progetto curatoriale di Luca Lo Pinto, ci è sembrata un’esperienza innovativa. Sia sotto il profilo dell’ascolto, di altissima qualità, all’interno di un cubo nero, dove si perdono le coordinate spaziali, predisponendosi all’abbandono. Sia per quanto riguarda la volontà di ricerca. Ossia la scelta di affiancare a figure dimenticate (o poco note ai più) della musica d’avanguardia e sperimentale, artisti contemporanei. Questa intervista è l’approfondimento di una visione, che ci spinge anche a considerare delle problematiche concrete (e politiche) che riguardano tanto la fruizione quanto la qualità del suono, nel momento in cui la musica viene trattata in una mostra esattamente come un quadro. 

V: Musica da Camera è la rubrica fissa dedicata alla musica che trova spazio all’interno del MACRO, rientrando a pieno titolo nel tuo progetto curatoriale pensato come una rivista. Una scelta innovativa e ambiziosa per un museo, no?

Luca Lo Pinto: Sì, soprattutto perché si tratta di musica d’avanguardia e sperimentale collocata sullo stesso piano delle altre arti. Non volevo confinarmi nella sound art, anche se può avere delle tangenze con la musica sperimentale, perché è un tipo di definizione che sarebbe stata respinta da alcuni musicisti. Includere la musica è stata una scelta dettata dalla riflessione sul ruolo episodico che occupa all’interno delle istituzioni artistico-culturali, dove appare più sotto forma di eventi e senza una grande coerenza da parte dei musei nel trattarla. Prima di tutto perché manca la conoscenza approfondita su questa forma d’arte. Anche se ci sono alcuni casi di rilievo che dimostrano il contrario, come quello di Andrea Lissoni all’Haus Der Kunst.

 


V:
Quindi si tratta di una necessità che parte da te?

LLP: Dalla passione che ho sempre avuto, sin dai tempi in cui studiavo. Il desiderio è stato portare dentro a un’istituzione anche un mondo di ossessioni e interessi personali che pensavo necessitasse di spazio all’interno di un contesto museale, che non è nato per queste arti. Anche se la peculiarità di un museo di arte contemporanea dovrebbe essere esporre, studiare, eventualmente conservare e archiviare tutte le ricerche portate avanti oggi che non si traducono necessariamente in un oggetto fisico, ma che possono riguardare il corpo o appunto il sonoro. Quindi ho pensato che sarebbe stato bello presentare un focus sulla musica, senza però incorrere nell’appropriazione da parte del mondo dell’arte. Il fatto che si trattasse solo di musica registrata è stata la prima scelta di campo importante. Volevo ottenere un focus molto ricercato sull’ascolto, rapportandomi al suono con lo stesso rigore con cui mi sarei rapportato a un quadro.

V: Come doveva essere il livello del suono?

LLP: Non eccessivamente alto, come nel caso del punk, ma giusto, adatto al pubblico e alla fruizione di un museo. Ricordo a questo proposito due signore, che avevano visto la mostra di Natalie Du Pasquier, che entrate nella stanza rimasero a lungo ad ascoltare. Credo abbia una rilevanza politica per un museo riuscire a creare questi incontri, consentire a delle persone di conoscere forme d’arte e artisti che non avrebbero mai incrociato nelle loro traiettorie. È stato sin dall’inizio un aspetto importante per me riuscire a creare dei ponti tra un pubblico di non addetti o appassionati e un certo tipo di ricerche. Così come rispetto alla programmazione è stato cruciale scegliere delle figure storiche affiancandole ad artisti più recenti.

 

MUSICA DA CAMERA, (Editions) Mego 1995-2020. Exhibition view. 
In riproduzione casuale l’intero catalogo dell’etichetta Editions Mego dal 1995 al 2020. Museo per l’Immaginazione Preventiva, MACRO 2021. 
Photo: Agnese Bedini and Melania Dalle Grave of DSL Studio.


V:
Come avviene nelle mostre.

LLP: Esattamente, sin dall’inizio l’idea era di fare delle mostre, con una durata precisa e una selezione della musica analoga a quella delle opere. Dando spazio a musica registrata, label e musicisti e alternando contributi storici e recenti. Mi piace quando i pubblici si incrociano, perché magari chi conosce Luigi Nono, che ha una certa età, non conosce Senni o non sa chi è Fatima Al Qadiri. Analogamente chi sta troppo dentro al contemporaneo e conosce gli artisti del momento magari non ha mai sentito le composizioni di Luigi Nono, che sono pazzesche e contemporanee quanto, se non di più, molte cose che ci sono oggi. La conformazione era questa, con la volontà di trattare il suono con lo stesso rigore con cui tratto gli altri oggetti, offrendo la migliore condizione di ascolto possibile.

V: In che modo è stata ottenuta?

LLP: È stato chiamato un tecnico per insonorizzare completamente la stanza ed è stato acquistato uno dei migliori sistemi di ascolto. Inoltre i file consegnati dagli artisti sono sempre stati al massimo livello. Abbiamo ottenuto una condizione che si può trovare solo in uno studio. Molto apprezzata dai musicisti stessi.

 

 

V: Come sei riuscito a restituire la dimensione dell’ascolto, che rispetto alla visione richiede più tempo e attenzione?

LLP: Non ho voluto cuffie. Ho preferito che il suono fosse diffuso nella stanza. Inizialmente avevo ipotizzato di installare un plasma fuori, affinché si potesse leggere cosa veniva suonato all’interno. Idea poi abbandonata, perché non potevamo personalizzarlo. La prima mostra è stata quella di Editions Mego, in occasione della quale si è esibito il suo fondatore, Peter Rehberg. Tra l’altro per l’ultima volta prima di morire. Con lui abbiamo deciso di realizzare un enorme wallpaper all’esterno con la lista degli album prodotti. Una sorta di ritratto dell’etichetta. E abbiamo lasciato che le persone si addentrassero nell’ascolto, senza nessun altro appiglio, visivo o di testo, che fungesse da spiegazione. Per cui entrando non si poteva sapere esattamente che cosa si stesse ascoltando. È sicuramente una scelta radicale che però non preclude il piacere dell’esperienza.

V: Le mostre sono tutte uguali?

LLP: Sì per quanto riguarda l’esperienza all’interno della sala. Esternamente invece sono stati introdotti dei cambiamenti in funzione dell’artista. Per esempio Egisto Macchi e Pauline Oliveros erano gli unici due musicisti non viventi. In questo caso la scelta è stata orientata ad offrire un panorama il più possibile esaustivo del loro lavoro. Si è cercato inoltre di trovare delle espansioni, anche al di fuori della stanza. Nel caso di Pauline Oliveros è stata fatta una selezione di scritti perché la scrittura per lei era una parte importante della pratica. È stato fatto un workshop durante la mostra per approfondire il deep listening. Si è cercato di ottenere delle chicche, come le registrazioni di quando stava a San Francisco con Morton Subotnick. Passando al contemporaneo per il focus su Presto!? con Lorenzo Senni abbiamo strutturato la mostra in quattro momenti e realizzato una sorta di installazione all’ingresso che simulasse lo studio, cioè il luogo fisico dell’etichetta. Quindi esternamente si potevano trovare testi, partiture o altro, oltre alla lista degli album suonati dentro.

 

Egisto Macchi, I Futuribili, 1971, Gemelli Edizioni Musicali.
Courtesy Sylvaine Couquet Macchi.
Archivio Egisto Macchi, Roma

 

V: Per cui c’è stata un’espansione dei contenuti delle mostre fuori dalla sala ma anche nel tempo?

LLP: Sì, con Sublime Frequencies per esempio abbiamo dedicato una giornata agli screening dei loro documentari, presentati da loro, perché sono una parte importante della loro produzione e ricerca. Loro sono dei veri e propri musicologi, con un approccio etnografico e contemporaneamente punk. Non accademici insomma. Quindi è stato anche interessante partire dalla musica per espandere il discorso attraverso le proiezioni. Ogni artista del resto porta con sé una dimensione precisa, chi più politica chi più esperienziale. E abbiamo cercato di restituirla.

V: Per quanto riguarda il rapporto con Roma è interessante che tu abbia dedicato spazio ad Alvin Curran e al suo lavoro di registrazione di suoni e rumori urbani e delle periferie..

LLP: Considera che Alvin risiede a Roma dalla fine degli anni Sessanta e non aveva mai avuto una mostra. Per questo motivo l’ha pensata come una sorta di retrospettiva sonora. Ha preso degli estratti di tutto ciò che ha prodotto dalla fine degli anni Cinquanta a oggi e ha realizzato una mega compilation, che ha anche cambiato e aggiornato durante la mostra. Quindi ci ha donato una nuova opera composta di frammenti di opere del passato, consentendoci di mettere anche in connessione diverse generazioni, scopo che più in generale è stato alla base della selezione degli artisti, tra cui diversi da scoprire o riscoprire. Penso a Franca Sacchi che è stata una delle prime donne a fare musica elettronica in Italia e in Europa anche se poi si è dedicata all’insegnamento e alla pratica dello yoga, oppure a Egisto Macchi o alla stessa Pauline Oliveros, che dopo la sua morte è diventata molto nota, ma è stata per lungo tempo semi sconosciuta.

 

Alvin Curran, Roma, 1980. 
Photo: Adriano Mordenti.

 

V: Il pubblico come ha reagito?

LLP: L’effetto principale è la sorpresa. Non tutti investono tempo a leggere il format, più di frequente entrano e provano. Anche perché il MACRO, fino a non troppo tempo fa, era gratuito. Per cui potevi passare sette ore al suo interno, cosa che ti consentiva anche di entrare e uscire più volte dalla sala di Musica da Camera, uno spazio in cui il corpo si muove diversamente. Ci si può sedere a terra o sdraiare sulla moquette. Suggerisce molta libertà. Quindi un modo meno costringente di vivere il museo, che per me è un aspetto politico importante. Un altro livello che introduce la musica. Nel 2024 il mondo dell’arte contemporanea è più aperto rispetto al passato, ma spesso è una questione più di apparenza che di sostanza. Per cui invitare delle persone a entrare in una stanza completamente buia, con delle sedute morbide, dedicata all’ascolto e al trasporto che questo induce, credo sia un modo per offrire loro un’esperienza più accessibile. Anche se si tratta di musica sperimentale, che necessita di un maggior impegno nella fruizione per la sua comprensione da parte del pubblico.

 

museomacro.it