Ogni società viene plasmata dalla natura dei media che utilizza per comunicare e formula il mondo a partire dalle possibilità che gli stessi media offrono. Le origini di questo processo di mutazione dell’umanità in relazione al proprio ambiente comunicativo va rintracciato nella parola parlata che, vivendo su visibilità e corporeità, disegna uno spazio in cui relazioni, confini e regole di comportamento sono strettamente vincolati alla compresenza, sincronizzazione e simmetria di atto del comunicare, informazione e comprensione. L’oralità fonda un essere insieme comunitario fluido, palpabile e dialogico, anche se già, in parte, inevitabilmente distinto dalle cose e dal mondo. Il medium del linguaggio realizza, attraverso la voce, un primo distanziamento dalla concretezza sensibile, una prima differenza tra suono e referente, una prima duplicazione e frattura che apre la strada all’alterità. La quale, con la scrittura alfabetica, diviene una realtà effettiva che prelude alla deterritorializzazione: ossia alla possibilità di vedere la comunicazione, di osservare il mondo e di osservarsi. Autonomia e astrazione sono i fondamenti del movimento di neutralizzazione dell’attualità e della collocazione delle cose, dei corpi, dei fatti specifici sul versante della virtualità e sul piano del simbolico.
Se nell’oralità, relazione e comunicazione sono ancora confuse, con la scrittura alfabetica si allentano, facendo emergere, nella stesura testuale, la comunicazione come oggetto distinto, disponibile alla circolazione e all’interpretazione. Il testo-comunicazione diviene il luogo del distacco, dell’autonomia di atto del comunicare e comprensione, e dell’articolazione dello spazio-tempo nella contemporaneità del non contemporaneo, la quale permette non solo la compresenza di passato e futuro, ma anche la loro trattazione al presente e scansione lineare. Il processo di progressiva autonomia della comunicazione diventa radicale con l’introduzione della stampa, che consente di rivolgersi a un pubblico anonimo, generando un ‘altro’ comunicativo sempre più inconoscibile, conducendo a generalizzazione e riproducibilità nella forma della copia. È la macchina stessa a comunicare e l’informazione sta al centro. Emittente e ricevente sono sempre più lontani, la relazione è gerarchica e polarizzata e a contare sono i testi, le argomentazioni, i racconti, che si ritagliano il loro spazio nel tempo quotidiano delle persone.
Tempo moderno, scisso in unità funzionali, seriale, ritmico e orientato alla velocità. Di questa condizione è responsabile l’elettrificazione – una vera e propria rivoluzione percettiva e cognitiva – che instaura un sistema della visione che si orienta verso un mutamento totale, che assegna all’informazione, sempre più spettacolare e effimera, il potere di svelare, smaterializzare, stimolare la corporeità. Luce che informa, trasforma e sollecita mobilità, emotività, fantasia, sogno, immaginazione, flânerie. Il mutamento è fisiologico, connesso alla comunicazione e alla sua deriva mediale, che comporta un nuovo modo di abitare, essere ed esserci (essere insieme) nomade e leggero, che nel flusso legge la sua metafora e dimensione costitutiva e di apprendimento superficiale. Con le telecomunicazioni e i media dell’immagine di stampo audiovisivo del XX secolo, e con le tecnologie a base computazionale, infatti, si entra a pieno titolo in un’epoca contraddistinta da permutazione, ricombinazione e dall’immediatezza dell’essere in relazione. Tutto il mondo diviene comunicabile e visibile per immagini (che dopo i primi tempi del cinema muto convogliano anche i suoni, da cui l’”oralità di ritorno” di cui parla Marshall McLuhan).
Ad essere visibile è sostanzialmente la comunicazione, nel suo luogo e in quanto luogo. Schermo, occhi, etere e fibre che connettono parti diverse del globo, favoriscono l’essere insieme reticolare e policentrico e accentuano l’esperienza percettiva, sempre più quotidiana e familiare. Ciò accade poiché i media sono estensioni del nostro corpo e dei nostri sensi e superficie di contatto con l’ambiente, di cui riconosciamo la natura ipertestuale, frammentaria, condivisa e anche incarnata. Riconosciamo nello sconfinamento del corpo nella mente e della mente nel corpo i territori di un nuovo anthrophos e del suo abitare il cyberspazio e il cybercorpo [dove il prefisso cyber richiama il discorso sul cyborg, inteso da un lato come figura, combinazione di un organismo evoluto e di una macchina, dall’altro come sistema dinamico autoregolato, convergenza di milioni di menti nella rete elettronica di comunicazione (Yehya Naief, Homo cyborg, pag.33)], che più che luoghi fisici appaiono come orizzonti di possibilità offerti dalle tecnologie – esteriorizzazione dei vissuti, dei desideri, dei sensi; interiorizzazione della contingenza, dell’alterità; disseminazione della soggettività; spersonalizzazione, multividualità, connettività, interattività; codifica e decodifica di espressioni e supporti dell’informazione – e dalla dimensione fluida ed estranea alle dicotomie – Organico-Inorganico, Natura-Artificio, Io-Altro, Corpo-Mondo – che la dimensione relazionale richiama.
Di qui la crisi della maniera moderna di intendere, vedere, progettare lo spazio e categorizzare le cose sensibili e il duro colpo inferto al regno dell’umano: non più il solo in cui si verificano interazioni comunicative. Tutto oggi appare nuovamente in grado di comunicare; la metamorfosi è potente. Attesta l’impossibilità di ogni distinzione – Reale-Immaginario, Originale-Copia, Attuale-Virtuale, Uomo-Natura –, la necessità di movimento tra diversi piani di realtà, media e produzioni – in reciproca contaminazione per via dell’attraversamento di una gran varietà di reti e flussi (conoscenze, saperi, informazioni, idee, immaginari, consumo, persone, presenze virtuali o antropomorfe) – e l’abilità nel leggere e elaborare la comunicazione, quindi nel riformulare il reale su base testuale, narrativa, multi-connettiva e paesaggistica. Detto altrimenti: rinuncia alla sintesi e spinta verso un nuovo modo di “pensare lo spazio” per multiversalità e dislocamenti, come insieme di relazioni e interazioni mai date stabilmente né definite in maniera univoca.
La costruzione che ne consegue è percettiva e culturale, in continua oscillazione tra estetica e scienza, e disposta a leggere nel paesaggio, luogo della mente incarnata, l’espressione di un’altra visione del mondo e del corpo (corpo-mondo, corpo-territorio, corpo-urbano, corpo-sociale) che può dirsi “corpografica” (Canevacci Massimo, Corpographie), orientata a porre l’accento su: erranza, spaesamento, esperienza della prossimità, dialogica, artisticità, navigabilità e pragmatica del dress code. Senza dimenticare che il dress code è una psico-tecnologia che agisce sull’ecologia della mente, ponendo in relazione corpo individuale, collettivo, territoriale, locale; un dispositivo relazionale, sia quando è strictly enforced sia libero.
Saggio tratto da Extended Mind. Viaggio, comunicazione, moda, città, a cura di Carlotta Petracci, anno 2006.